Sentiamo spesso ripetere la frase: «Non fare del bene se non sei pronto all’ingratitudine». Ma fino a che punto possiamo considerarla davvero corretta?

La gratitudine è il sentimento di riconoscenza che si prova verso la persona da cui si è ricevuto un bene. Siamo riconoscenti verso gli insegnanti che ci hanno trasmesso la curiosità per la conoscenza; verso gli amici sinceri che facendoci notare i limiti dei nostri comportamenti ci aiutano a diventare migliori; verso i medici che agendo con scrupolo scoprono per tempo malattie destinate a diventare molto insidiose.

Ovviamente questo tipo di «bene» non può essere ricambiato. L’eventuale ingratitudine nei confronti di queste persone può concretizzarsi unicamente riservando loro un male gratuito: non mostrando la sensibilità e l’attenzione che viceversa ci sono state riservate.

La gratitudine non è il prodotto di un «do ut des». Né si può pretendere gratitudine se si è semplicemente attribuito una cosa dovuta altrimenti si finisce per scambiare il diritto con il favore. Accade sovente, invece, che alla gratitudine si attribuisca un significato che non può e non deve avere. Lo capii per la prima volta tanti anni fa, da studente, quando udii un anziano professore dire ad un suo giovane collaboratore: «si ricordi che mi deve tutto». A ben riflettere le possibilità erano due: o quel giovane aveva conseguito legittimamente e per merito la posizione che ricopriva e in tal caso non doveva nulla a nessuno, tantomeno gratitudine. Oppure l’anziano professore lo aveva favorito a scapito di altri al fine di creare un proprio gruppo di potere. Inutile dire che questo esempio può essere traslato in tantissimi altri contesti.

Il bene per cui è legittimo nutrire gratitudine difficilmente è un bene materiale. Sicuramente non può essere qualcosa cui non avremmo diritto e che ci viene dato sottraendolo ad altri o senza che ce ne siano i presupposti.

In tantissimi casi la riconoscenza nasconde soltanto l’inconfessabile desiderio di ricevere benefici maggiori. E, in un numero altrettanto ampio di casi, chi fa del bene non lo fa in una logica puramente altruistica ma unicamente per poter contare su carrozze di ritorno al momento opportuno.

Il governo della cosa pubblica sembra essere diventato il terreno privilegiato di questo genere di comportamenti. Specialmente a seguito del crollo delle ideologie per molti elettori è quasi naturale votare qualcuno solo perché è in grado di concedere favori (da questo punto di vista la frase «voto la persona» può diventare inquietante). Dal canto loro gli «eletti» promettono e concedono favori al mero fine di conquistare consensi e, quindi, maggiore potere.

Se la «riconoscenza» acquista tali caratteristiche il buono può venire solo dagli ingrati.

Corriere del Trentino, 4 ottobre 2013

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