La pratica giudiziaria ogni giorno ci mette di fronte ad interrogativi complessi. È possibile che un teste, in perfetta buona fede, sia convinto di aver assistito a un fatto mai verificatosi? È possibile che una persona chiamata a un confronto «all’americana» riconosca, sempre in perfetta buona fede, l’autore di un fatto tra più persone, nessuna delle quali l’ha commesso? È possibile per un avvocato, con opportune strategie, generare falsi ricordi nel teste? Perché a volte si ravvisano nessi causali anche dove non ce ne sono? Perché siamo affascinati dalla prova scientifica, a volte fino al punto di non considerare gli altri dati che emergono dal processo? Perché la liquidazione del risarcimento è influenzata dall’esposizione a immagini cruente? La liquidazione del risarcimento dipende dalle emozioni provate dal giudice al momento del giudizio? Perché nelle transazioni a volte le parti optano per soluzioni per loro manifestamente pregiudizievoli? Molti atti ritenuti colposi vengono commessi prima che si abbia coscienza di commetterli? Giudici di una certa severità se riuniti in collegio pronunciano decisioni più severe di quelle che pronuncerebbero presi singolarmente?
Per rispondere ad interrogativi come questi non basta attingere al solo sapere giuridico. A queste e a molte altre domande che si pongono i giuristi pratici e quelli teorici non si può dare risposta se non analizzando i processi cognitivi. Occorre sapere come è strutturata e come funziona la memoria di parti, testi, avvocati e giudici, e, soprattutto, occorre sapere come si articolano i loro processi di pensiero ogniqualvolta siano coinvolti in un giudizio
Da qualche settimana è in libreria il libro di Carlo Bona e Rino Rumiati dal titolo: Psicologia cognitiva per il diritto. Ricordare, pensare e decidere nell’esperienza forense (Il Mulino, 2013, 26 euro).
In questo libro uno psicologo (Rino Rumiati, Università di Padova) e un giurista (Carlo Bona, Università di Trento) si sono messi insieme per capire che cosa la psicologia cognitiva può insegnare al mondo del diritto. Hanno scritto un testo che non è una giustapposizione di punti di vista ma un elaborato omogeneo perché compilato in tutto e per tutto a quattro mani: ogni passaggio è il distillato di un dialogo che dimostra lo sforzo di mettere al servizio di una impresa comune il rispettivo bagaglio culturale. Ciò che ne risulta è la prova che il lavoro interdisciplinare è tale solo se genera nuova conoscenza.
I giuristi apprenderanno molte cose leggendo questo libro. Specie quelli abituati a credere che il diritto sia una scienza per definizione scevra da contaminazioni. Gli autori dimostrano che senza tener presente i meccanismi di funzionamento della nostra mente difficilmente riusciamo a comprendere alcune dinamiche fondamentali come, ad esempio, quelle sottese al giudizio.
Da questo punto di vista si può dire che se esiste una «psicologia ingenua» esiste anche un «diritto ingenuo». La prima si basa sul senso comune e ritiene che si possano costruire teorie scientifiche senza preoccuparsi della loro attendibilità/falsificabilità. Il secondo si sostanzia nell’idea di diritto come sistema armonico che fornisce risposte razionali ai problemi secondo una logica formale e verificabile. Questo libro dimostra che le cose sono molto più complicate e che ci conviene comprenderle bene se vogliamo che il diritto non resti vuota finzione ma diventi sempre più strumento utile a governare una società ogni giorno più complessa.
La lettura del libro potrà risultare utile anche agli psicologi, specie a chi in vari ruoli (ad esempio: quelli di consulente e di perito) partecipa ad attività rilevanti per il diritto come può essere il processo e le decisioni che ivi maturano come esito di specifiche procedure.
(pubblicato su La gazzetta del Mezzogiorno del 18 gennaio 2014)