Gli slogan vuoti della politica

DiGiovanni Pascuzzi

12 Luglio 2017

Gli slogan sono frasi brevi che esprimono un’idea in modo sintetico ed efficace. Vengono usati molto nel linguaggio della pubblicità e della politica (e, forse, il parallelismo non è frutto del caso). Per molti versi, rappresentano l’evoluzione moderna di taluni motti passati alla storia. Tra i più celebri ricordo «Libertè, fraternitè, egalitè» che continua a caratterizzare gli ideali propugnati dalla rivoluzione francese; oppure «L’immaginazione al potere» divenuta il simbolo dell’utopia studentesca degli anni ’60 e dei cosiddetti figli dei fiori; o, ancora, «Io sono mia», evocativo archetipo delle battaglie per l’emancipazione delle donne.

In tempi più recenti, agli slogan si affidano molto le forze politiche per sintetizzare i punti di forza dei propri programmi. A metà degli anni ’70 del secolo scorso la Democrazia cristiana fece leva su «Trent’anni di libertà. Alcuni buoni, altri meno buoni, ma tutti nella libertà». Nell’epoca berlusconiana il tormentone è stato il «Non metteremo le mani nelle tasche degli italiani». Il renzismo ha scelto come cavalli di battaglia la «rottamazione» e il «noi ci mettiamo la faccia». Il grillismo ricorda che «uno vale uno». Agli slogan si ricorre anche nel nostro territorio: si pensi all’espressione «autonomia dinamica».

Il raffronto tra i diversi esempi induce qualche riflessione. Gli slogan più risalenti nel tempo individuavano movimenti di persone e di pensiero; quelli a noi più vicini sono propri di partiti politici quando non di singole persone (a ben vedere, oggi non c’è candidato a una qualsiasi elezione che non senta il bisogno di crearsi uno slogan). Espressioni come «libertè, fraternitè, egalitè» sono ben radicate nella memoria collettiva perché individuano valori che sfidano il tempo. Il non mettere le mani in tasca o il metterci la faccia individuano, al più, delle modalità operative di governo destinate peraltro a mostrare la corda, visto che le tasse non diminuiscono e che alcuni politici, di facce, ne perdono a dozzine. Anche l’equazione «uno uguale a uno» non regge, se il capo ha molto più potere di tutti gli altri.

Insomma, la «sloganizzazione» del linguaggio sembra andare di pari passo con lo svuotamento dei contenuti. Ugo Foscolo avrebbe detto: «Sdegno il verso che suona e che non crea». Era una critica anticipata al Decadentismo. Oggi viviamo il decadentismo della sostanza. Che si nutre di poche parole. Vuote.

Corriere del Trentino, 12 luglio 2017

 

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