Negli ultimi lustri l’istruzione universitaria ha subìto profonde trasformazioni che hanno finito per modificare la mentalità degli studenti. Un tempo si conseguiva la laurea dopo aver superato un certo numero di esami. Oggi per raggiungere lo stesso obiettivo occorre accumulare «crediti» che non corrispondono solo agli esami sostenuti ma anche ad attività integrative e trasversali (tirocini, stage, abilità informatiche).
Il «credito» ha una sua utilità: è l’unità di misura dell’impegno e consente di comparare esperienze formative diverse. La logica è però quella del «do ut des»: faccio qualcosa affinché tu mi riconosca qualcosa (altrimenti non c’è interesse a metterla in pratica). Del pari gli studenti sono chiamati a formulare dei questionari di valutazione sulle attività didattiche. Servono a migliorare il lavoro dei docenti e in qualche ateneo si è deciso di ancorare a tale valutazione una quota degli stipendi dei professori. La logica, in questo caso, è simile alla «customer satisfaction»: un po’ come quando gli alberghi ci chiedono di esprimere il gradimento dei servizi offerti.
La situazione ha un corrispondente nelle dinamiche degli atenei: il loro finanziamento dipende anche dal numero di studenti che si laureano nei tempi stabiliti. Le università, quindi, hanno interesse ad avere giovani che raggiungano il traguardo finale per tempo.
I cambiamenti descritti (pur dettati dalla volontà di migliorare la realtà) hanno trasformato gli studenti in consumatori. Per le università, d’altra parte, essi sono diventati dei clienti. Non passerà molto tempo prima che qualcuno si inventerà la «portabilità dello studente» così come avviene per un mutuo o per un numero di telefono: lo studente/cliente potrà scegliere tra i diversi gestori — in concorrenza tra loro — quello che converrà di più.
Lo scenario non stupisce: è una delle tante ricadute della tendenza a modellare l’intera società sui paradigmi dell’azienda, della concorrenza e del profitto. Occorre tuttavia riflettere sui pericoli di tale deriva. Uno tra tutti: il consumatore è per definizione passivo rispetto alla merce che gli viene proposta. Può solo sceglierla o rifiutarla, non concorre a produrla. La formazione non solo non è una merce ma è efficace unicamente se enfatizza il ruolo attivo e critico del soggetto che apprende. L’obiettivo non deve essere formare i giovani con la mentalità del consumatore. Occorre formare cittadini e, soprattutto, persone.
Corriere del Trentino 23 agosto 2017