In concomitanza con il congresso nazionale della Società italiana di fisica (Sif) tenutosi a Trento venerdì scorso, sono stati presentati i risultati di uno studio che dimostra quanto difficile sia per le donne accedere alla carriera accademica e, in particolare, ai gradi più elevati della stessa. Nella nostra università le professoresse in prima fascia sono circa il 12% del totale rispetto a una media nazionale che si attesta intorno al 20%.
Sarebbe un errore, però, fermarsi solo ai dati numerici. Le misure per attrarre e trattenere le docenti si collocano in vari ambiti. Uno di essi è l’uso appropriato delle parole. Non basta un impiego corretto del linguaggio per dare soluzione a problemi di ineguaglianza sociale che hanno radici profonde, ma certamente è uno fra gli aspetti significativi, specchio di forme di pensiero e di tradizioni.
Succede abbastanza spesso che si saluti un professore con il suo titolo (ovvero: «buongiorno professore») e invece a una professoressa si riservi un «buongiorno signora», contribuendo così implicitamente ad attribuire un ruolo di subalternità alla donna. Segnalo per inciso che in taluni contesti tenere siffatti comportamenti è considerato illecito disciplinare. Ad esempio, il Consiglio nazionale forense ha sanzionato un avvocato che in udienza aveva chiamato «signora» un’«avvocata» (sentenza Cnf 28 dicembre 2006 numero 195).
Al di là dei riferimenti legati ai numeri, occorrerebbe guardare alla sostanza delle varie condotte. Il codice etico dell’ateneo (articolo 6) impone agli universitari di trattare i loro interlocutori con cortesia, rispetto, lealtà e correttezza. Mentre il successivo articolo 7 prescrive una serie di comportamenti in materia di pari opportunità. Non usare il titolo accademico parlando a, o parlando di, una donna e adoperare il generico «signora» appare essere un atteggiamento privo di rispetto nei confronti dell’interlocutrice. La commissione per l’attuazione del Codice etico potrebbe essere investita del problema affinché chiarisca se tale prassi è corretta e se esistono eventuali doveri di denuncia in capo a chi assiste a episodi di tale tenore.
Un intervento chiarificatore della citata commissione aiuterebbe a costruire una policy chiara e a favorire comportamenti più virtuosi. A tacere del fatto che costruire gradualmente un ambiente sociale rispettoso della componente femminile, anche nel linguaggio, è parte di una buona politica delle pari opportunità.
Corriere del Trentino, 23 settembre 2017