Vaccini: quale strategia?

Vaccini: quale strategia?

di Giovanni Pascuzzi

Nota a Corte cost. 5/2018 in Il Foro Italiano, 2018, I, 737

 

1. La battaglia della Regione Veneto.

La Regione Veneto è convinta che l’obiettivo di combattere (e magari eradicare) alcune malattie attraverso i vaccini si ottenga più agevolmente convincendo le persone a sottoporre se stessi e, soprattutto, i propri figli a tale trattamento sanitario (i. e. «consenso informato») che non obbligandole, anche perché quest’ultima strategia può rivelarsi addirittura controproducente[1].

A dire la verità, tale convinzione si inscrive in un orientamento che era stato ipotizzato anche a livello statale. Già nel Piano Nazionale Vaccini 1999-2000 si ventilava l’opportunità di una eliminazione progressiva delle strategie coercitive in campo vaccinale[2]. Ed inoltre molte altre Regioni, come ad esempio la Lombardia, l’Emilia Romagna e il Piemonte, sia pure con modulazioni diverse e con strumenti non legislativi, avevano intrapreso la strada tesa a superare l’obbligo vaccinale[3].

Ma tale approccio al problema sembra caduto in disgrazia e così la Regione Veneto ha reagito per riaffermare la bontà della propria strategia, quando il governo, preoccupato per l’attestarsi del numero dei vaccinati sotto la soglia che garantisce la cosiddetta «immunità di gregge», ha ribadito, con il d.l. 73/2017, l’obbligo per le quattro vaccinazioni da tempo legislativamente imposte (antidifterica, l. 891/1939; antitetanica, l. 292/1963; antipoliomelitica, l. 51/1966; antiepatite B, l. 165/1991) e lo ha introdotto per altre otto (anti-pertosse; anti-Haemophilus influenzae tipo b; anti-meningococcica B; anti-meningococcica C; anti-morbillo; anti-rosolia; anti-parotite; anti-varicella) poi scese a sei con la legge di conversione 119/2017 per un totale di dieci[4].

Con due ricorsi (il numero 51/2017 rivolto contro il d.l. 73/2017 e il numero 75/2017 rivolto contro la legge di conversione 119/2017) la Regione ha tentato, senza successo, di far affermare alla Corte costituzionale che non c’erano i presupposti per emanare un decreto legge, che erano state violate le competenze regionali, che era stato eccessivamente sacrificato il principio di autodeterminazione, che non erano ben definite le coperture finanziarie[5].

La Consulta ha dichiarato costituzionalmente legittimo il d.l. 73/2017. Ma il dibattito è destinato a continuare: quale strategia garantisce una migliore copertura vaccinale?

I giudici costituzionali hanno riconosciuto che possono essere usati strumenti diversi per ottenere una prevenzione efficace delle malattie infettive come la stessa comparazione giuridica dimostra visto che negli altri Paesi si spazia da chi impone obblighi vaccinali muniti di sanzione penale a chi vara semplicemente programmi promozionali massimamente rispettosi dell’autonomia individuale[6]. Anche in Italia, ribadisce la Corte, si è registrato il susseguirsi di politiche vaccinali di vario segno, sicché a fasi alterne l’accento è di volta in volta caduto più sull’obbligo ovvero sulla raccomandazione[7]. Con il d.l. 73/2017 la discrezionalità del legislatore ha guardato all’obbligo come strumento ottimale.

 

  1. Politiche pubbliche, sapere medico-immunologico e competenza del giurista.

Sul tema dei vaccini (non solo nel nostro paese) si contrappongono due schieramenti: chi sostiene debbano essere al massimo raccomandati e chi, all’opposto, ne vuole l’imposizione obbligatoria. Nelle file della prima posizione, inutile nasconderlo, c’è chi è contrario ai vaccini per definizione perché ne sostiene la dannosità: a scanso di equivoci chiarisco che non è questa la posizione di chi scrive[8]. Sul versante opposto militano la quasi totalità di medici e degli immunologi, che sono in grado di dimostrare come proprio grazie ai vaccini riusciamo a combattere molte malattie pericolose[9]. Il grande paradosso dei vaccini è che più sono efficaci, meno sembrano necessari.

Della competenza di medici ed immunologi occorre fidarsi. E’ bene però delimitare con precisione fin dove debba spingersi il loro apporto. Esso è senz’altro indispensabile allorché si tratta di definire problema ed obiettivo: non altrettanto può dirsi per la strategia più utile a raggiungerlo, specie se questo richiede la padronanza di saperi diversi. Nel caso che ci occupa gli immunologhi ci aiutano a capire che per difendersi da gravi malattie occorre vaccinare almeno il 95% della popolazione così da raggiungere la cosiddetta «immunità di gregge». Ma non sono altrettanto titolati ad indicare il modo per arrivare a quel risultato (se la raccomandazione, se l’obbligo, o se strumenti ancora diversi): semplicemente perché per capire se una certa misura può funzionare, ovvero se orienterà i comportamenti delle persone nella direzione voluta, occorrono altre competenze: sociologiche, psicologiche, economiche e così via.

Le politiche vaccinali definiscono le azioni da compiere per preservare la salute della popolazione nei confronti delle minacce portate da virus e batteri.

La scelta della politica vaccinale da adottare spetta al decisore politico. La scienza immunologica aiuta il decisore politico a definire gli obiettivi da raggiungere (nel nostro caso: la vaccinazione di massa). Resta l’aspetto relativo alla scelta della strategia da seguire, visto che uno stesso obiettivo può essere perseguito in modi diversi. Qui la competenza richiesta è la capacità di fare previsioni, di capire, cioè, alla luce di considerazioni di tipo sociologico, psicologico, economico, criminologico ed altro ancora, quale reazione i consociati avranno rispetto alla adozione di una certa politica[10].

Nel contesto appena tracciato, importante è il ruolo del giurista. Egli è (o dovrebbe essere) in grado di fornire ausilio esperto su come definire i problemi per i quali si pensa che una politica pubblica possa fornire risposta e individuare le soluzioni che davvero consentono di risolvere tali problemi. Se la decisione finale spetta a chi ha il potere di emanare le norme (nel rispetto dei principi sulla formazione delle regole), esiste una fase importante, precedente a quel momento, nella quale i problemi devono essere correttamente rappresentati, le cause che li generano specificamente isolate, i reali destinatari delle norme correttamente individuati, le possibili soluzioni alternative efficacemente disegnate anche in maniera originale e creativa, le scelte ipotizzabili puntigliosamente soppesate negli aspetti negativi e in quelli positivi che portano con sé.

Al giurista non spetta scegliere: egli non è il regolatore/decisore/legislatore/pubblico potere. Ma suo compito è consentire al decisore di prendere decisioni trasparenti, chiare ed efficaci rispetto all’obiettivo. Egli deve definire il problema evidenziando quali interessi/ragioni contribuiscono alla sua formulazione, prospettando anche divere possibili formulazioni del problema. Deve comprendere gli obiettivi, evidenziando le diverse opzioni di politica del diritto ad essi sottesi. Deve formulare possibili soluzioni illustrando pro e contro di ciascuna di esse, anche facendo tesoro dell’apporto di altri saperi (nel nostro caso: quelli prima descritti). Il che presuppone che il giurista possegga anche le skills proprie del dialogo interdisciplinare[11].

 

  1. Se Atene piange, Sparta non ride.

In materia di vaccini, tra obbligatorietà e scelta consapevole il governo, con il d.l. 73/2017 ha scelto prepotentemente la prima alternativa ritenendo la seconda strategia inappagante (perché avrebbe provocato la caduta del numero dei vaccinati sotto la soglia percentuale ritenuta necessaria a garantire l’immunità di gregge).

Ora dire o anche dimostrare che una certa soluzione è sbagliata non significa aver dimostrato che, come conseguenza, è giusta quella propugnata. Così come, per fare un esempio banale, se si è convinti che due più due faccia cinque, non si ha ragione per il solo fatto che si riesce a mettere nell’angolo chi sostiene che due più due faccia tre.

La strada della imposizione può produrre dei risultati non desiderati.

Non è detto, ad esempio, che serva a conformare i comportamenti di chi si oppone a priori ai vaccini magari per motivi ideologici. Al contrario, potrebbe spingere ad una ulteriore estremizzazione delle posizioni.

Scegliere la strada dell’obbligatorietà nulla ci dice su quanti debbano essere i vaccini necessari: quattro, dodici, dieci, venti? Il fatto che nel d.l. 73/1017 fossero previsti dodici vaccini obbligatori, poi scesi, nella legge di conversione 119/2017 a dieci (più quattro raccomandati), ci fa capire che il legislatore si è posto un problema di accettabilità/praticabilità della misura o, che forse, le malattie da cui difendersi non sono tutte minacciose nello stesso modo.

L’obbligatorietà potrebbe provocare il falso convincimento che solo quelli imposti sono i vaccini davvero importanti, così da ridurre la percezione del rischio verso malattie (come l’influenza stagionale) che pure possono essere pericolose se non combattute preventivamente.

Puntare sull’adesione consapevole, al contrario, assicura la collaborazione delle persone che è molto importante nella vaccinazione degli adulti e soprattutto nei cosiddetti «richiami» senza i quali le vaccinazioni perdono efficacia. Ad esempio, l’antitetanica (che pure è obbligatoria anche se non si trasmette per contagio), necessita di richiami ogni dieci anni.

Un altro degli aspetti che dovrebbe indurre a riflettere sono le modalità scelte per imporre davvero l’obbligo: una di esse è agire sul percorso educativo. L’iscrizione alla scuola dell’infanzia prima, e a quella dell’obbligo dopo, è visto come una specie di collo di bottiglia: siccome tutti devono “passare” di lì, imporre la vaccinazione come requisito per l’iscrizione dovrebbe indurre i genitori a vaccinare i figli. A parte il fatto che occorrerebbe tenere distinti l’iscrizione alla scuola materna da quella alla scuola primaria (essendo diverse le funzioni delle due istituzioni), questo modo di vedere le cose fa nascere un contrasto tra due diritti costituzionalmente garantiti (salute e istruzione) e alla necessità di decidere quale dei due debba prevalere.

Ma si supponga, per assurdo, che in Italia non si dia l’obbligo di istruzione: se così fosse, davvero non avremmo nessun mezzo per rendere coercibile l’obbligo di vaccinare i bambini? Venendo meno quel collo di bottiglia cui si è fatto riferimento prima, non sussisterebbe nessuna possibilità di fare pressione sui genitori?

Occorre aver ben chiari alcuni elementi:

  1. a) interesse dei bambini è tanto crescere in buona salute quanto essere istruiti;
  2. b) è anche interesse della società che i bambini crescano sani e istruiti;
  3. c) vaccinare è compito dei genitori. Le conseguenze delle azioni di questi ultimi non possono ricadere sui figli. Essi fanno ciò che gli adulti decidono per loro. Ragionando per assurdo, potrebbero esserci bambini non vaccinati per scelta dei genitori che sarebbero anche ignoranti per scelta della pubblica autorità. Un bel risultato davvero.

Le norme appena emanate prevedono, in capo ai dirigenti scolastici, l’obbligo di segnalare i bambini che non hanno le certificazioni delle vaccinazioni praticate. Ma nessun obbligo di segnalazione è previsto per i pediatri di libera scelta. Proprio i pediatri (retribuiti dal servizio sanitario nazionale a vantaggio di tutti i bambini) svolgono una funzione fondamentale nello spiegare ai genitori l’importanza dei vaccini anche al fine di trasformare quella che ad alcuni appare come una pratica indistinta di vaccinazione di massa in un atto individuale di scelta alla luce della condizione del singolo bambino e nel suo interesse. Anziché attendere che i non vaccinati arrivino a sei anni, attribuendo il compito di verifica alle autorità scolastiche, si potrebbe chiedere ai pediatri di segnalare da subito i bambini non vaccinati. Così si può intervenire prima, si resta nell’ambito della tutela della salute e si evita di sovrapporlo al diritto all’istruzione attribuendo ai dirigenti scolastici compiti di controllo che non pertengono loro.

 

  1. Conclusioni.

Da un punto di vista logico, prima di emanare un atto normativo occorrerebbe: individuare i problemi da affrontare; definire gli obiettivi; elaborare delle possibili strategie; valutarne l’efficacia e scegliere quella ritenuta migliore[12].

Con la recente legislazione sui vaccini è stata archiviata in fretta la stagione dell’adesione volontaria, sposando la strategia dell’obbligatorietà senza interrogarsi troppo se davvero propizierà gli obiettivi voluti (neanche tanto chiari visto che i vaccini obbligatori sono passati da 4 a 12 per poi fermarsi a 10) ovvero se esistono strategie ancora diverse, come ad esempio la cosiddetta «spinta gentile»[13].

È un po’ come arrendersi all’idea che gli italiani non potranno mai avvicinarsi ai popoli più maturi che non hanno bisogno di imposizioni per tenere comportamenti virtuosi per sé e per la collettività. Un luogo comune dice che gli italiani non vaccinano i figli per la stessa ragione per la quale non pagano le tasse: contano sul fatto che lo facciano gli altri. Il legislatore si è comportato come se fosse davvero così.

Dinanzi alla Corte costituzionale il Veneto ha perso una battaglia. Ma sarebbe bello ritrovarsi in un Paese che possa contare sulla strategia dell’informazione e della scelta consapevole.

 

[1] Con legge regionale 23 marzo 2007 n. 7 il Veneto aveva sospeso l’obbligo di sottoporre i nuovi nati alle quattro vaccinazioni in quel momento imposte dalla legge: antitetanica, antidifterica, antipoliomelitica, antiepatite B. Cfr. Corvaja, La legge del Veneto sulla sospensione dell’obbligo vaccinale per l’età evolutiva: scelta consentita o fuga in avanti del legislatore regionale?, reperibile all’indirizzo https://www.osservatoriosullefonti.it/mobile-saggi/fascicoli/fasc-1-2008/150-03-corvaja-f/file.

[2] L’obiettivo di abbandonare l’imposizione era stato ribadito anche successivamente. Nel Piano nazionale vaccini 2005-2007 (http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_543_allegato.pdf) si prefigurava, pagg. 66 e ss., un percorso che avrebbe portato al superamento dell’obbligo vaccinale. Strategia ribadita ancora nel Piano nazionale vaccini 2012-2014.

[3] In argomento si veda: Querci, Sospensione dell’obbligo vaccinale a livello regionale: profili di illegittimità costituzionale, in Rass. dir. farmaceutico, 2009, 263; Molaschi, Verso il superamento degli obblighi vaccinali: considerazioni alla luce del piano piemontese di promozione delle vaccinazioni 2006, in Sanità pubbl. e privata, 2006, fasc. 6, 25. Nella nota di richiami a Tar Friuli 12 ottobre 2017 n. 312, Foro it., 2017, III, 572 viene ricostruito quanto avvenuto, nella direzione volta al superamento dell’obbligo vaccinale, nella Provincia autonoma di Trento prima del d.l. 73/2017.

[4] L’anti-meningococcica B e l’anti-meningococcica C, a seguito della conversione in legge del decreto non sono obbligatorie, ma insieme all’anti-pneumococcica e all’anti-rotavirus vengono offerte «attivamente e gratuitamente» ai nuovi nati: art. 1, comma 1 quater d.l. 73/2017.

[5] La Regione Veneto ha anche chiesto al Consiglio di Stato un parere circa l’interpretazione degli articoli 3 e 3-bis della legge 31 luglio 2017, n. 119, di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 7 giugno 2017, n. 73: cfr. Cons. Stato, comm. spec. 26 settembre 2017, n. 1614/17, Foro it., 2018, III, 609 con nota di richiami.

[6] Si veda il punto 8.2.2 della sentenza in epigrafe, nonché Tomasi, Vaccini e salute pubblica: percorsi di comparazione in equilibrio fra diritti individuali e doveri di solidarietà, in Dir. pubbl. comparato ed europeo, 2017, 455.

[7] Per una breve ricostruzione di questo movimento del pendolo si rinvia alla citata nota di richiami a Tar Friuli 12 ottobre 2017 n. 312, Foro it., 2017, III, 572.

[8] Per l’analisi (critica) delle ragioni addotte dai cosiddetti no-vax v.: Grignolio, Chi ha paura dei vaccini, Torino, 2016.

[9] Burioni, Il vaccino non è un’opinione. Le vaccinazioni spiegate a chi proprio non le vuole capire, Milano, 2016.

[10] Una piccola digressione può essere utile a spiegare meglio, da un altro punto di vista, quanto scritto nel testo. Spesso sentiamo ripetere che abbiamo bisogno di «politici competenti».  Ma che cos’è esattamente la competenza in politica? La competenza non coincide con la capacità di procacciare voti. Spesso i partiti candidano artisti affermati o campioni dello sport proprio perché attraggono consenso. Ma essere in grado di arrivare allo «scranno» nulla ci dice su cosa si è poi in grado di fare. Del pari, la competenza politica è cosa diversa dal possesso di conoscenze anche approfondite in uno specifico campo. Un virologo di vaglia potrà esprimere un parere illuminato se si deve affrontare il tema dei vaccini, ma quella particolare conoscenza può rivelarsi poca cosa allorché le Camere sono chiamate ad occuparsi delle mille altre materie di loro competenza: dalla politica estera al commercio internazionale, dalla tutela dell’ambiente all’ordine pubblico.

Il concetto di competenza riassume la padronanza di saperi, abilità e abiti mentali. Il Parlamento è chiamato a scrivere leggi e definire politiche pubbliche in senso ampio: attraverso le norme vengono orientati e/o conformati i comportamenti delle persone al fine di raggiungere gli obiettivi considerati importanti. La competenza politica significa innanzitutto essere in grado di capire i problemi della società: quelli presenti ma anche e forse soprattutto quelli che verosimilmente si presenteranno. È un compito difficile: perché bisogna essere in grado di «leggere» i fenomeni, comprenderne le cause, metterli in relazione. Significa, poi, immaginare le soluzioni per quei problemi enucleando gli strumenti, anche innovativi, più idonei a perseguirli. Prima di scrivere bene una legge occorre concepire ricette efficaci nel merito.

Ma il solo possesso delle capacità appena viste non basta. Problemi, soluzioni e strumenti possono essere compresi e costruiti solo se si ha una meditata e coerente visione del mondo. Il disavanzo statale può essere un problema, il taglio delle spese può essere visto come strumento per la sua soluzione, decidere se tagliare la spesa sociale o la spesa per gli armamenti attiene alla visione del mondo. A ben vedere è il profilo più importante di questa competenza: quello che dovrebbe portare a ritenere che, anche nell’epoca del «fare», la distinzione tra destra e sinistra non è affatto superata.

[11] Per approfondimenti v. Pascuzzi, Il problem solving nelle professioni legali, Bologna, 2017, pp. 78 e 126.

[12] Quanto scritto nel testo si muove nel solco di quanto prescritto in relazione alla analisi di impatto della regolazione, di recente novellata dal dpcm 15 settembre 2017 n. 169 (Regolamento recante disciplina dell’impatto della  regolamentazione, la verifica dell’impatto della regolamentazione e la consultazione).

[13] Affronto il tema della spinta gentile alle vaccinazioni in un saggio di prossima pubblicazione su Mercato, concorrenza e regole.

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