Dalla scuola primaria all’università, le agenzie formative sono diventate teatro di una contrapposizione tra paladini delle conoscenze e sostenitori delle competenze. L’impostazione più tradizionale pone particolare enfasi sulla trasmissione delle «discipline» (matematica, storia, geografia, eccetera). Altri sottolineano, invece, la necessità di far acquisire delle «competenze»: capacità di risolvere problemi, comunicare, imparare a imparare e così via. Tale diverso approccio è fatto proprio dall’Unione europea.
In rete si possono trovare appelli di docenti che chiedono di abbandonare la formazione basata sulle competenze perché sarebbe unicamente orientata alla necessità del mondo del lavoro e propizierebbe un apprendimento poco approfondito e acritico. Sul versante opposto c’è chi sposa totalmente la logica delle competenze e i suoi derivati (vedi prove Invalsi) denunciando come obsoleta ogni diversa impostazione. A uno sguardo superficiale può sembrare che la contrapposizione si riassuma in un’antitesi inconciliabile: chi conosce davvero è un perfetto incompetente, mentre il vero competente è colui che non sa (non conosce) alcunché.
Ai sostenitori dell’apprendimento tout court conviene ricordare quanto emerge dalla mostra sul Sessantotto aperta recentemente a Sociologia; in particolare il movimento nato a Berkeley nel 1964 che fu tra i prodromi della rivolta studentesca. Nel libro «Viaggio americano» Fernanda Pivano spiega che a Berkeley i giovani contestavano l’università come «fabbrica di nozioni» avulsa dalle loro esigenze esistenziali; un ateneo, ricorda Pivano, al servizio del governo e dell’industria. Il rischio di puntare solo sul sapere disciplinare è quello di avere una formazione avulsa dai bisogni delle persone e dai contesti in cui si opera.
Agli entusiasti delle competenze, conviene ricordare che il «saper fare» staccato da solidi quadri di riferimento teorici non porta da alcuna parte. E che non si può annoverare, come fa la Ue, tra le competenze chiave lo «spirito imprenditoriale» senza arrendersi alla nefasta idea che la conoscenza esista solo se «utile» all’impresa. Tra conoscenza e competenza non c’è alcuna contraddizione, ma si alimentano a vicenda: anche «saper pensare» e «saper criticare» sono delle «competenze». La vera scommessa è farle recepire entrambe. Il difficile, infatti, è insegnare a essere interi.