Insegnare all’Università

DiGiovanni Pascuzzi

14 Giugno 2018

Giovanni Pascuzzi, Insegnare all’Università

(Contributo destinato agli “Scritti in onore di Roberto Pardolesi”)

  1. Introduzione.

Cosa significa, oggi, insegnare all’Università? Quale ruolo deve svolgere un professore nella formazione dei giovani? È sufficiente tenere delle lezioni cattedratiche nelle quali fare sfoggio della propria scienza disinteressandosi di cosa effettivamente rimane delle parole pronunciate? Quali competenze deve possedere per insegnare in maniera efficace? Cosa deve sapere e cosa deve saper fare un professore universitario? E cosa significa “essere” professore? Quali responsabilità comporta?

 

 

  1. I compiti del professore universitario.

 

L’articolo 6 della legge 240/2010 definisce lo stato giuridico dei professori e dei ricercatori universitari[i]. Dalla lettura della norma si evince che essi sono tenuti a svolgere (per un monte ore che varia in funzione della scelta del regime di tempo pieno ovvero di tempo definito):

  1. a) attività di ricerca, di studio e di aggiornamento scientifico;
  2. b) attività di insegnamento, compiti didattici e di servizio agli studenti, ivi compresi l’orientamento e il tutorato;
  3. c) attività di verifica dell’apprendimento.

Con termini più altisonanti o con arricchimenti di contorno (esempio: orientamento e tutoraggio), la norma citata elenca le tre attività che da sempre caratterizzano il professore universitario: fare ricerca, fare didattica, fare gli esami[ii].

Il legame tra ricerca e didattica è uno dei nodi fondanti delle istituzioni universitarie[iii]. Si usa ripetere che l’insegnamento universitario non è di tipo ripetitivo ma di tipo critico: lo studente è (dovrebbe essere) partecipe del lavoro di ricerca del proprio docente. In questo modo egli si appropria non solo del sapere ma anche degli strumenti di produzione del sapere.

In campo giuridico non sempre questo approccio viene coltivato.

Nel 1974, un famoso libro che non a caso legava già nel titolo le parole “ricerca” e “insegnamento” si apriva con queste parole[iv]:

 

Ammoniva Seneca che ‘non troveremo mai niente se saremo paghi delle cose trovate: chi segue un altro non trova nulla, anzi non cerca nulla’. Eppure, nonostante i ricorrenti discorsi sul rinnovamento dell’università, da fondare sulle vestigia della sua crisi, l’insegnamento del diritto nelle nostre facoltà sembra proprio esemplato sull’ assurdo che l’antico filosofo condannava. Nei luoghi istituzionalmente deputati alla ‘ricerca’, in cui si dovrebbe cioè sollecitare in tutte le forme l’amore all’acquisizione personale e l’attitudine alla continua revisione critica dei risultati conseguiti, si prospetta invece lo studio del diritto come modo di trasmissione di un complesso definito e organizzato di indici, previamente collocati, da chi insegna, entro un preciso quadro sistematico. Con il risultato che il diritto non viene quindi assunto come oggetto di una ‘ricerca’, in cui docente e discente siano accomunati, pur su di una diversa base di esperienza, da un medesimo atteggiamento metodologico e critico, sì piuttosto come contenuto di una forma di comunicazione riferita ad un complesso di ’dati’ che lo studente non concorre in alcun modo ad individuare”.

 

La presentazione di “Diritto privato. Una ricerca per l’insegnamento” (sul quale chi scrive preparò, unitamente al manuale di Trabucchi, l’esame di Diritto privato) proseguiva illustrando il diverso approccio seguito in quel libro con le parole che seguono [v]:

 

Il libro che presentiamo è nato da un gruppo di lavoro costituitosi presso l’Istituto di diritto privato della Facoltà giuridica di Bari che – convinto che sapere giuridico, al pari di ogni altra forma di conoscenza, non si trasmette a titolo derivativo, ma si acquista a titolo originario e che la scuola deve solo fornire gli strumenti per tale personale acquisizione – ha avvertito in via primaria l’esigenza di saldare i contenuti della propria ricerca sul diritto con i temi dell’insegnamento, al quale di fatto aspira una massa sempre crescente di matricole, ormai misurabile nell’ordine delle migliaia per ciascun anno, ancorché in larga parte impossibilitato a fruire di un rapporto personale con il docente”.

 

Legame stretto tra didattica e ricerca, quindi. Ma esiste un legame molto stretto anche tra insegnamento e valutazione degli apprendimenti.

Ai professori viene chiesto di fare ricerca e attività didattica e di svolgere anche un altro compito: esaminare gli iscritti ai corsi e ai singoli insegnamenti. Nella veste di pubblici ufficiali i professori devono accertare e verificare il grado di preparazione degli studenti. Questo avviene perché tramite i ‘professori‐esaminatori’ lo Stato vuole verificare che le persone cui sarà attribuito un titolo di studio avente valore legale (laurea triennale, magistrale, etc.), abbiano determinati requisiti (si usa volutamente un termine generico)[vi]. In particolare: che abbiano raggiunto gli obiettivi formativi di quello specifico corso di laurea[vii].

In realtà esiste un legame molto stretto tra valutazione, insegnamento e apprendimento. Ciascuno dei tre elementi citati retroagisce sull’altro

Per convincersene, è sufficiente por mente ad una prassi tuttora seguita. Spesso gli studenti che devono sostenere un esame all’Università seguono intere sessioni di quell’esame e trascrivono le domande poste dai professori e il tipo di risposte considerate soddisfacenti. Si cerca, attraverso questa defatigante attività, di affinare la preparazione alla luce delle domande che vengono formulate. Insomma poiché l’obiettivo è superare positivamente l’esame, l’insieme degli sforzi tesi all’apprendimento si riduce a conoscere tutto ciò che permette di raggiungere quel risultato. Ecco, allora, che le modalità di verifica della preparazione retroagiscono sui contenuti della preparazione stessa. Si pensi anche alla prassi di chiedere al docente se, per l’esame, si devono studiare solo gli appunti presi a lezione o anche i libri di testo. Gli studenti fanno il loro mestiere cercando di ottenere “sconti sul programma”. Ma per questa via si finisce per subordinare alle modalità valutative gli stessi contenuti dell’apprendimento.

Saper scrivere è un’abilità fondamentale dei giuristi, ma ben di rado nei corsi di laurea in Giurisprudenza si insegnano le abilità connesse alla scrittura. E poiché gli esami sono di solito orali ecco che un determinato sistema di valutazione retroagisce sui contenuti dell’apprendimento. Dato che all’esame non si chiede allo studente di scrivere, gli studenti si sentono legittimati a non perfezionarsi nella scrittura. Le modalità valutative retroagiscono sulla configurazione degli obiettivi di apprendimento. E viceversa.

In sintesi:

– la finalità principale della valutazione nei contesti educativi formali (Università, Scuole di specializzazione e così via) è scoprire se gli studenti hanno raggiunto gli obiettivi di apprendimento prefissati, ovvero se hanno imparato ciò che si voleva imparassero;

– esiste una relazione molto forte tra valutazione e apprendimento. Mutare le procedure di valutazione è una delle premesse più efficaci per cambiare contenuti dell’apprendimento e modo di apprendere;

– la valutazione retroagisce anche sull’insegnamento. I dati aggregati sugli esiti della valutazione permettono ai docenti di rivedere le proprie strategie didattiche e alle agenzie educative di ridiscutere l’intera impostazione dei corsi. Se, ad esempio, molti studenti non superano l’esame probabilmente c’è qualcosa da ricalibrare nei criteri di progettazione e somministrazione delle attività formative;

– le modalità valutative usate tendono a condizionare pesantemente i modi e i contenuti dell’apprendimento perché il processo di insegnamento si piega inevitabilmente sulle prestazioni e sulle attività richiesta dalla valutazione[viii].

 

 

  1. Ritratti di professori nelle trame dei film.

 

Nella propria esperienza universitaria ogni studente si imbatte in tipologie diverse di professori. Incontra, cioè, modi diversi di intendere l’insegnamento.

Uno spaccato di possibili figure di docenti è rinvenibile nelle trame cinematografiche. Di seguito saranno analizzati i passaggi di alcuni film famosi nei quali sono protagonisti dei professori universitari. Per ciascuno di essi si proverà a tratteggiare il profilo e ad evidenziare pregi e difetti del modello che rappresentano.

 

A) L’autoritario.

 

“Esami per la vita” (titolo originale: The Paper Chase, Usa 1973, regia di James Bridges) è una commedia drammatica sulle pressioni cui è sottoposto uno studente del primo anno alla facoltà di legge di Harvard. James Hart è una matricola ossessionata dal severissimo professor Kingsfield. Si innamora di Susan, che si scopre essere la figlia del professore, ma trascurerà lei e molto altro per riuscire a terminare il corso del padre della ragazza.

Di seguito il dialogo della scena iniziale del film[ix]. Il professore ha la pianta dell’aula, con i nomi e le immagini degli studenti che hanno un posto assegnato. Infatti conosce il nome dello studente che vuole interrogare.

 

 

Professore: Mr. Hart, esponga i fatti di Hawkins vs McGee. Ho pronunciato correttamente il suo nome? Lei è Mr. Hart?

Studente: Si, sono Mr. Hart.

Professore: Può alzare la voce, Mr. Hart?

Studente: Si, sono Mr. Hart.

Professore: Mr. Hart, non sta ancora parlando con un volume sufficiente. Si alzi. [Lo studente si alza].

Professore: Ora che è in piedi, probabilmente la classe potrà ascoltarla. È in piedi?

Studente: Si, sono in piedi.

Professore: Alzi la voce Mr. Hart. Riempia quest’aula con la sua intelligenza. Adesso esponga i fatti del caso.

Studente: Non ho letto il caso.

Professore: Ha letto il syllabus del corso?

Studente: No.

Professore: Lei assume che questa sarebbe stata solo una lezione di introduzione al corso.

Studente: Si.

Professore: Non assuma mai nulla nel mio corso.

 

Avendo accertato che lo studente non ha letto la sentenza, il Professore riassume egli stesso i fatti del caso. E poi pone delle domande incalzanti al medesimo giovane. Solo dopo aver ascoltato due o tre risposte non corrette, rivolge le domande ad un altro studente. La scena termina con Mr. Hart che corre in bagno a vomitare. Anche in un’altra inquadratura, il Professor Kingsfield sottopone gli studenti ad un interrogatorio in aula[x].

La scena ci fa vedere come funziona il cosiddetto “case method” che caratterizza la didattica nelle Law School statunitensi[xi]. Si parte, infatti, dall’analisi di un caso giurisprudenziale. Ma soprattutto ci mostra un modello di professore autoritario che si impone alla classe.

Chiama per nome uno specifico studente. Con voce stentorea gli dice di aumentare il tono della voce e di alzarsi in piedi. Usa il sarcasmo quando gli dice “riempia quest’aula con la sua intelligenza”. Lo umilia continuando a porgli domande anche dopo che il ragazzo ha ammesso di non aver letto il caso (alla fine i fatti delle vicenda li riassume lui e ascolta il balbettio delle risposte abborracciate). Ostenta la sua insindacabile autorità quando ribadisce che in aula si fa solo quanto da egli descritto nel syllabus pubblicato in bacheca: gli studenti non devono ritenere che accada qualcosa di diverso da quanto descritto in quella sede. Anzi non devono assumere nessuna iniziativa: viene azzerato qualsiasi ruolo attivo degli studenti che possono/devono solo rispondere alle domande. A questo si riduce la partecipazione dei giovani. Il risultato è il disagio del giovane somatizzato nei conati di vomito.

 

 

B) Il barone (cinico).

 

“La meglio gioventù” (Italia 2003, regia di Marco Tullio Giordana) racconta 37 anni di storia italiana, dall’estate del 1966 alla primavera del 2003, attraverso le vicende di una famiglia romana.

Uno dei giovani della famiglia, Nicola (interpretato da Luigi Lo Cascio), è iscritto a Medicina alla Sapienza di Roma. Di seguito la scena del colloquio tra Nicola e il professore al termine dell’esame[xii].

 

 

 

Professore: Lei avrebbe meritato un 28, un 29. Le ho messo 30 perché ho applicato quello che io chiamo il “quoziente di simpatia”. Poca cosa, ma quanto basta per farla arrivare al 30. Qualcuno trova da eccepire su questo mio quoziente di simpatia [guarda gli assistenti che restano muti e subiscono]. Ma io credo che la simpatia, nel senso greco del termine, cioè condividere il pathos, la sofferenza altrui, è molto importante per un medico. Ad altri applico invece il “quoziente di antipatia”. Cioè tolgo due anche tre punti. L’antipatia è la cosa peggiore per un medico. Lei è meritevole comunque. Complimenti. Ma non si monti la testa. Ha ancora due esami da fare con me e sono sempre in tempo a farla a pezzi. [Nel pubblico due amici dello studente gioiscono]. Quei due chi sono? Amici suoi? Si porta dietro la claque?

Studente: No è che siccome dovevamo partire, allora sono venuti…..

Professore: Sono del mio corso? Non me li ricordo.

Studente: No. Carlos fa economia e invece Berto studia filosofia.

Professore: Non mi racconti le loro biografie. A me basta soltanto sapere che elementi simili andranno a far danno altrove. Economia, filosofia: andiamo bene. Lei promette bene, le dicevo, e probabilmente sbaglio. Comunque voglio darle un consiglio. Lei ha una qualche ambizione? E allora vada via. Se ne vada dall’Italia. Lasci l’Italia finché è in tempo. Cosa vuole fare? Il chirurgo?

Studente: Non lo so. Non ho ancora deciso.

Professore: Qualsiasi cosa decida, vada a studiare a Londra, a Parigi. Vada in America se ne ha la possibilità. Ma lasci questo paese. L’Italia è un paese da distruggere. Un posto bello e inutile. Destinato a morire.

Studente: Cioè secondo lei tra un poco ci sarà una Apocalisse.

Professore: E magari ci fosse. Almeno saremmo tutti costretti a ricostruire. Invece qui rimane tutto immobile, uguale, in mano ai dinosauri. Mi dia retta: vada via.

Studente: E lei allora, professore, perché rimane?

Professore: Come perché? Mio caro io sono uno dei dinosauri da distruggere.

 

L’atteggiamento del professore è quello comunemente definito come “baronale”. Egli esercita in maniera indiscussa il proprio potere che si sostanzia nella possibilità di aumentare o ridurre a piacimento il voto finale. Il potere lo esercita anche nei confronti degli assistenti. Questi ultimi, infatti, non dicono nulla e in ogni caso il professore chiarisce che se anche qualcuno avesse qualcosa da ridire lui farebbe comunque come gli pare.

Descrive cinicamente un quadro nero anche se realistico dell’Italia. Infatti invita il giovane ad andare via da questo paese.

Ma a suo modo fornisce due insegnamenti. Il primo è che un medico deve imparare a condividere la sofferenza altrui (elemento fondamentale del “saper essere”). Il secondo è che le nuove generazioni devono abbattere i dinosauri per poter trovare la propria strada (anche se solo nella metafora freudiana dell’uccisione del padre).

 

 

C) Il genio distaccato.

 

“A Beautiful Mind” (USA 2001, regia di Ron Howard) racconta la storia del grande matematico e premio Nobel per l’economia John Nash (interpretato da Russel Crowe).

In una scena del film si vede Nash da giovane impegnato in una lezione universitaria[xiii]. Ecco il dialogo con gli studenti.

 

 

Professore: [Entra in aula]. Le avide menti di domani. [Chiude la finestra perché all’esterno alcuni operai stanno usando il martello pneumatico provocando molto rumore].

Studente: Possiamo lasciare aperta una finestra, Professore, fa molto caldo?

Professore: [Comincia a scrivere un complesso problema matematico alla lavagna]. Il vostro benessere viene dopo la mia possibilità di udire la mia voce. Personalmente ritengo che questo corso sarà una totale perdita del vostro, e cosa infinitamente più grave, del mio tempo. Ma siamo qui. Quindi potete frequentare o no. Potete completare il compito a vostro piacimento….

[Una studentessa si alza e apre la finestra che il Professore aveva chiuso].

Professore: [Contrariato] Signorina!

Studentessa: [Rivolta agli operai]. Scusate abbiamo un piccolo problema. Qui dentro fa un caldo insopportabile con la finestra chiusa e c’è un fracasso insopportabile se la apriamo. Mi chiedevo se potevate aiutarci magari andando a lavorare da qualche altra parte. Noi staremo qui circa tre quarti d’ora.

Operaio: Va bene, andiamo via.

Studentessa: Grazie.

[Torna il silenzio. La finestra rimane aperta].

Professore: Come scoprirete nel calcolo a più variabili, ci sono molte soluzioni ad ogni problema posto. Come dicevo questo problema in particolare richiederà ad alcuni di voi mesi per essere risolto. Mentre alcuni tra voi ci metteranno tutta la vita per risolverlo.

 

In questo caso il professore si rivela autoritario ma anche autorevole. Anche lui usa il sarcasmo quando chiama i ragazzi “le avide menti di domani” oppure quando dice che alcuni dei ragazzi non risolveranno mai il problema assegnato. Per certi versi li irride.

Non vuole creare nessuna empatia e mantiene un deliberato distacco.

Sa di essere una mente superiore: butta nel cestino il libro di testo. Ma i giovani ne sono consapevoli e sembrano riconoscergli l’indiscussa bravura.

Accade un imprevisto. Una studentessa vìola il suo ordine: tenere chiusa la finestra. E trova una soluzione che consente agli studenti di respirare e al professore di parlare senza essere disturbato (manda gli operai a lavorare da un’altra parte).

Un professore soltanto autoritario non avrebbe permesso di essere messo in discussione. Ma lui accetta la sfida: esce dallo schema. Utilizza l’imprevisto per dare un insegnamento: ci sono più modi per risolvere lo stesso problema.

A dispetto dello stereotipo del professore autoritario, questo, in particolare, mostra la disponibilità ad interagire con quello che accade in aula utilizzando l’azione dei ragazzi per raggiungere un obiettivo formativo. Un comportamento che aumenta l’autorevolezza.

 

 

 

D) Il paladino del talento.

 

“Genio ribelle” (Will Hunting, USA 1997, regia di Gus Van Sant) narra la storia di un ragazzo prodigio, Will Hunting, che lavora come uomo delle pulizie al MIT di Boston. Un bravo psicoanalista riuscirà a fargli superare i problemi (violenze subite dal padre adottivo) che gli fanno vivere la vita con il freno a mano tirato.

Ma ad accorgersi del ragazzo è un luminare del MIT, il professor Gerald Lambeau. Egli scrive su una lavagna del corridoio una complessa equazione e chiede ai suoi studenti di risolverla. Il mattino dopo l’equazione è risolta: ma non dagli studenti bensì da Will, il ragazzo delle pulizie. Il professore comprende di avere di fronte un genio e ne prende a cuore le sorti, cominciando dal porre rimedio ai guai che Will ha con la giustizia.

Due profili meritano di essere sottolineati.

Il professor Lambeau è convinto di dover indirizzare il genio nell’interesse del ragazzo e della stessa umanità. In una scena del film (minuto 1.12.00) litiga con lo psicoanalista che invece ritiene che il giovane deve cercare di essere felice infischiandosene del successo e della medaglia Fields (massimo riconoscimento per i matematici)[xiv].

Ma degno di nota è anche il colloquio che si svolge tra il ragazzo e il professore quando questi scopre di avere incontrato una persona più brava di lui (minuto 1.25.00).

 

 

Professore: [Guardando il compito svolto dal ragazzo]. Questa equazione non può essere giusta. Sarebbe davvero imbarazzante.

Will: È giusta. Se la studi pure a casa.

Professore: Com’è finito il colloquio che ti avevo procurato?

Will: Non ci sono andato. Non organizzi altri colloqui.

Professore: Non lo farò. Te lo dò io un lavoro. Volevo solo che tu vedessi che cosa c’è là fuori.

Will: Senta forse non voglio passare il resto della mia vita a spiegare sciocchezze alla gente.

Professore: Potresti dimostrarmi un po’ di gratitudine.

Will: Un po’ di gratitudine? Lo sa quanto è facile per me questa equazione? Ce l’ha una pallida idea di quanto facile sia? Questo è soltanto un gioco e mi dispiace che lei non ci riesca. Veramente. Perché non dovrei starmene qui seduto a vederla sbattere la testa e a fare sciocchezze.

Professore: Così avresti più tempo per startene seduto a sbronzarti, vero?

Will: Giustissimo. Probabilmente sto sprecando il mio tempo.

Professore: Hai ragione Will. Non so fare questa prova. Ma tu si. E quando si arriva a questo…. Ci sono solo poche persone al mondo che possono dirti la differenza tra te e me e io sono una di quelle.

Will: Spiacente.

Professore: Anch’io lo sono. Spesso vorrei non averti mai conosciuto. Perché potrei dormire la notte. E non dovrei vivere con la consapevolezza che c’è qualcuno come te in giro. E non dovrei vederti gettare tutto al vento.

 

Quel professore vorrebbe valorizzare il giovane. Lo pungola perché ottenga il meglio: sa che può ambire al massimo riconoscimento per un matematico. In lui, probabilmente, vede la proiezione di se stesso.

Per altro verso comprende di avere di fronte una persona più brava di lui. Il vero genio. Il vedersi superato lo fa star male. Ma comunque vorrebbe fino alla fine che il giovane non butti al vento il proprio talento.

Un professore universitario (oltre a lasciare traccia nella mente di ogni studente che ha avuto) dovrebbe fare due cose: lasciare almeno un’idea e almeno un allievo migliore di lui.

Se gli allievi superano i Maestri, il bosco diventa foresta rigogliosa con alberi sempre più alti che si stagliano verso il cielo. Se questo non accade, si avrà un terreno con fili d’erba sempre più corti. Un terreno arido.

 

 

E) Il coach

 

“Il mistero Von Bulow” (Usa, 1990, regia di Barbet Schroeder) vede come protagonista un professore di una prestigiosa facoltà giuridica statunitense che accetta di difendere in appello una persona condannata in primo grado per uxoricidio sulla base di prove create ad arte[xv]. La trama è interessante perché riproduce sullo schermo una clinica legale: un caso approdato in un giudizio viene affrontato da un docente universitario insieme a studenti del proprio corso affinché questi ultimi possano non solo approfondire le problematiche di diritto sostanziale e processuale legate al caso ma anche cimentarsi con tutte le abilità necessarie ad affrontare un caso della vita reale (saper rapportarsi al cliente, saper interrogare i testimoni, saper svolgere attività investigative e così via)[xvi].

Il professore-avvocato svolge, in questo caso, il ruolo del coach di una squadra: costruisce il gruppo, elabora la strategia difensiva, assegna i compiti (ad esempio: alcuni dovranno occuparsi di ricostruire la giurisprudenza di quella corte in casi analoghi; altri dovranno occuparsi di verificare l’attendibilità delle indagini compiute; e così via). Gli tocca anche gestire gli aspetti relazionali e motivare le persone: ad esempio provare a capire, dialogando con lei, perché una studentessa non si impegna abbastanza nell’impresa.

Ma compito del professore è anche quello di insegnare ai giovani ad essere all’altezza del ruolo che li attende, ad assumersi le relative responsabilità, a comprendere quali valori sono sottesi alle scelte che quotidianamente facciamo (come giuristi e come persone). Di quanto appena detto fa fede il dialogo (che si svolge all’inizio del film)  tra il professore e una studentessa che gli rimprovera di aver accettato il caso.

 

 

 

Studentessa: Von Bulow è palesemente colpevole di un delitto spregevole e se grazie a noi tornasse libero diventeremmo suoi complici in questo crimine, sarebbe favoreggiamento. Alan sono esterrefatta. Con il suo passato di difensore dei poveri e degli oppressi come ha potuto accettare questo caso? Comunque io non voglio averci niente a che fare e spero che i miei compagni di corso facciano altrettanto.

Professore: Posso esercitare il mio diritto alla parola come sancito dal primo emendamento?

Studentessa: Prego.

Professore: Se gli avvocati difendessero solo gli innocenti vi assicuro che ne basterebbero 10 in tutto il paese. Nessuno di voi troverebbe più lavoro.

Studentessa: Qual è la ragione per cui si deve aiutare un colpevole ad uscire di galera?

Professore: Tu sei sicura che Von Bulow sia colpevole? Sicura al 100%?

Studentessa: Aveva un avvocato. Ha avuto un processo. È stato condannato.

Professore: E sei sicura che abbia avuto un processo equo?

Studentessa: Andiamo, Alan.

Professore: È la base dell’intero sistema. Chiunque sotto accusa ha diritto a una difesa. E il sistema è lì per aiutare quelle poche persone innocenti accusate ingiustamente. Sta’ a sentire. Prendiamo te. Un giorno decidi di divorziare da tuo marito. La settimana seguente sei accusata di molestie sessuali a tuo figlio. Non c’è niente da ridere. Storie del genere ne capitano continuamente. E di colpo ti ritrovi sola. Garantito. Credetemi è un incubo. Chiunque ti conosca dà per scontato che tu sei colpevole. Persino il postino comincia a guardarti in modo un po’ strano. E ti accorgi che c’è una sola persona disposta a crederti. C’è una sola persona di cui ti fidi: il tuo avvocato.

Studentessa: Mi ha convinto. D’accordo. Qualcuno dovrà difendere Von Bulow. Ma perché lei Alan? Perché noi altri?

Professore: Sei una mia allieva. Puoi scegliere. Non sei obbligata a fare una cosa che non vuoi. Dipende solo da te. Il criterio con cui io scelgo i casi, e in questo sono diverso da molti altri avvocati che non sono professori e fanno questo lavoro per vivere, è che io scelgo i casi che mi fanno più arrabbiare. E io sono molto arrabbiato adesso. La famiglia ha assunto una specie di pubblico ministero privato. Inaccettabile. Hanno effettuato una perquisizione in casa non autorizzata. Ora se glielo lasciamo fare una volta, ricchi e potenti non si rivolgeranno più alla polizia. Sapete che faranno? Incaricheranno i loro avvocati di fiducia per la raccolta delle prove. Dopodiché si tratterà solo di scegliere nel mucchio quelle più convenienti da passare al procuratore distrettuale. E la prossima vittima forse non sarà un riccone come Von Bulow, ma magari qualche povero cristo di Detroit che non può permetterselo o che non riesce a trovarlo un avvocato decente. Forse è un po’ più complicato. Più complicato della tua semplicistica morale. Non ti pare?

 

 

  1. Quale conoscenza deve essere oggetto di apprendimento?

 

Il primo interrogativo che un professore dovrebbe porsi riguarda i contenuti: quale conoscenza deve apprendere il soggetto conoscente? Cosa sia la conoscenza è tema vecchio e complesso come l’uomo. In questa sede, però, conviene richiamare l’attenzione su due aspetti particolari. Il primo riguarda specificamente le caratteristiche del sapere giuridico. Il secondo attiene, più in generale, al profilo cognitivo della conoscenza in relazione al quale si configurano alcune distinzioni di basilare importanza.

 

Peculiarità del sapere giuridico. Il diritto è una scienza con un proprio statuto epistemologico che presenta alcune peculiarità. L’oggetto di studio delle diverse scienze di regola è esterno e indipendente dal soggetto conoscente. Il fisico, ad esempio, studia i fenomeni della natura osservandoli e cerca di scoprire le leggi che li regolano. Non ha la capacità o la possibilità di incidere su questi fenomeni (anche se la fisica quantistica costringe a rivedere almeno in parte questa affermazione). Il giurista, invece, costruisce la scienza che egli stesso studia. Come è noto il diritto, almeno in occidente, è una creazione dell’uomo[xvii]. Ogni volta che si elabora una nuova teoria giuridica, un nuovo istituto giuridico, o un nuovo approccio per lo studio del diritto, il giurista contribuisce ad edificare la scienza giuridica che diventa poi oggetto di studio. Si può dire che il giurista studia un oggetto che egli stesso contribuisce a creare. Si pensi soltanto alla nascita di nuove branche del diritto come il diritto penale internazionale o il diritto del commercio internazionale; all’emersione di nuovi istituti o all’avvento di nuovi approcci metodologici come quelli di Law& Economics ovvero di Law & Literature. Tra l’altro è proprio tale varietà di apporti nuovi e originali che porta a riflettere sulla creatività del giurista e sui paradigmi dell’innovazione giuridica[xviii]. Questa è una delle ragioni per le quali i giuristi non possono mai smettere di aggiornarsi e devono continuare a studiare il diritto per tutta la vita: nel loro caso la formula del lifelong learning trova fondamento proprio nelle caratteristiche del sapere giuridico.

Occorre guardare alla scienza giuridica (ovvero al dominio che si desidera apprendere e far apprendere) come ad una variabile; ad un oggetto che muta ed è mutato nel corso del tempo: sono esistiti ed esistono diversi metodi di studio del diritto in ragione di diverse concezioni dello stesso.

I manuali di filosofia del diritto spiegano agli studenti di primo anno che sono esistite diverse concezioni del diritto. Limitandoci a fare un piccolo elenco di approcci succedutisi sulla scena nel corso dei secoli possiamo ricordare: il giusnaturalismo, l’imperativismo, il positivismo giuridico, il realismo giuridico (con le diverse varianti rappresentate dal realismo giuridico in senso stretto, dalla giurisprudenza sociologica, dall’istituzionalismo, dalla teoria del rapporto giuridico), il normativismo[xix].

Alle diverse concezioni del diritto storicamente hanno fatto riscontro anche diverse metodologie per lo studio del diritto[xx]. Per limitarci agli ultimi secoli si possono citare: la scuola dell’esegesi che vedeva nel giurista una mera «bocca della legge»; la scuola storica (riconducibile a Savigny) che guardava al diritto come ad un sistema da edificare, studiare ed applicare; la pandettistica tedesca impegnata ad elaborare una piramide concettuale del sistema attraverso l’uso di metodi logico-sistematici che nessuno spazio avrebbero dovuto lasciare alla creatività; la cosiddetta giurisprudenza degli interessi che si rifaceva ad una concezione pragmatica o sociologica del diritto e riconosceva nella norma il prodotto dei diversi interessi; la nuova topica tedesca e il pensare per problemi; il neopositivismo di impronta kelseniana[xxi]. Esistono poi le evoluzioni più recenti: l’analisi del linguaggio (Bobbio); la logica deontica; la nuova retorica di Perelman; l’analisi economica del diritto; i critical legal studies e così via.

Riccardo Orestano ha descritto il mutamento che si ebbe in Italia, sul piano della didattica universitaria del diritto, tra il XIX e il XX secolo, quando ad un insegnamento di tipo «esegetico» strettamente dipendente dalla tradizione francese si sostituì un insegnamento di tipo «scientifico» ispirato alla tradizione tedesca di stampo pandettistico. Il cambiamento avvenne nei procedimenti della scienza giuridica e nella concezione che questa veniva assumendo di se stessa e dei suoi compiti. La didattica ne subì le ricadute diventando lo specchio più fedele di quei mutamenti[xxii]. Il pedissequo ossequio al dettato legislativo e ai metodi interpretativi di stretta osservanza esegetica fu sostituito dall’anelito alla cosiddetta scientificità e alla costruzione sistematica. Savigny aveva sottolineato la necessità di affiancare al metodo storico quello sistematico che mira a comprendere come un tutto unitario la totalità delle norme e degli istituti giuridici su cui esse si fondano[xxiii]. Per altro verso Puchta, nel suo Corso delle Istituzioni, spiegava che le singole massime giuridiche tese a formare il diritto di un popolo sono reciprocamente collegate mediante un nesso organico: la scienza deve ricostruire le massime giuridiche nella loro connessione sistematica per potere risalire la genealogia delle singole massime fino al loro principio e scendere, quindi, dai principi fino alle loro estreme ramificazioni[xxiv]. In Italia si afferma per questa via il mito del sistema concepito come una costruzione metastorica che sovrasta e domina tutta la vita del diritto. Negli anni ’20 del secolo scorso De Ruggiero esaltava il sistema affermando che l’edificio, a chi lo contemplasse nella sua organica e sistematica struttura, si presentava come costruito da un complesso di dogmi, da una serie di principi e di concetti fondamentali che rappresentano le pietre angolari della sintesi e di cui le singole norme e le disposizioni non erano che concrete applicazioni o deduzioni particolari. De Ruggiero è stato autore di un manuale istituzionale a lungo studiato nelle Università italiane nella prima parte del ‘900[xxv].

Per molti decenni l’approccio di un concettualismo sempre più spinto e di un formalismo sempre più rarefatto hanno dominato la scena segnando un isterilimento della riflessione e, soprattutto, un divario sempre più accentuato tra dogmatismo e realtà, tra teoria e pratica. Negli ultimi decenni si è assistito al nascere di nuove tendenze spesso caratterizzate da una rivolta antiformalistica. Basti pensare alla maggiore enfasi oggi posta sulla natura argomentativa del ragionamento giuridico che appare più appagante della logica formale che si dovrebbe accompagnare all’idea di sistema.

Naturalmente non è possibile in questa sede approfondire ulteriormente queste tematiche. Ma quanto detto è sufficiente a dimostrare che la formazione giuridica è funzione della concezione del diritto a cui si aderisce e del ruolo che si ritiene il giurista debba svolgere nella società. Un comparatista insegna in maniera molto diversa da come insegnano i docenti che si rifanno alla tradizione pandettistica. E in maniera ancora diversa insegna chi fa proprio l’approccio di Law & Economics che vede nel diritto non un insieme regole che pongono obblighi e divieti bensì un meccanismo di incentivi e disincentivi.

Conviene anche sottolineare, come già faceva Orestano[xxvi], che sarebbe erroneo immaginare l’esistenza di una opposizione tra insegnamento teorico proprio della lezione cattedratica e insegnamento pratico cui sarebbero univocamente legate le esercitazioni casistiche. Anche chi ritiene che il diritto costituisca un sistema edificabile scientificamente può ricorrere ai casi concreti al fine di dimostrare con esempi la bontà delle deduzioni operate dai principi. E anche la spasmodica attenzione ai casi può diventare lo strumento per pervenire a principi generali da cui costruire il sistema. La contrapposizione non è tra insegnamento teorico e insegnamento pratico ma tra concezioni diverse del diritto e delle connesse metodologie. E la lezione teorica ovvero il seminario casistico può accompagnarsi tanto all’uno che all’altro approccio. Le strategie didattiche (lezioni, seminari, etc.) sono strumenti per molti versi neutri: essi si modellano in ragione del progetto formativo prescelto che presuppone l’adesione ad una precisa concezione del diritto. Chi elabora i progetti formativi nei contesti formali di apprendimento deve avere una idea ben chiara di cosa sia il diritto e del ruolo che i giuristi devono avere nella società. Ovviamente è ben possibile che si attinga ad opzioni di fondo diverse specie in singole iniziative didattiche. Questo è un fatto positivo perché si traduce in una pluralità di stimoli: si rende evidente agli studenti che esistono diverse visioni del mondo anche contrapposte. L’importante è che anche la diversità si approcci sia consapevole e resa palese. Fa parte della costruzione della cornice teorica dell’apprendimento. Vanno evitate l’improvvisazione e la commistione ambigua di approcci: non facilitano affatto l’apprendimento e rendono inefficace ogni conseguente strategia didattica.

 

Tipi di conoscenze. Su un piano più generale, le scienze cognitive ci dicono che esistono diversi tipi di conoscenze. Qui si espongono solo alcune considerazioni di massima.

Una prima grande distinzione si può tracciare tra una conoscenza dichiarativa e una conoscenza procedurale. La conoscenza dichiarativa è quella che ci permette di fare nostri determinati fatti (ad esempio: il giorno in cui è morto Napoleone ovvero il contenuto mnemonico dell’articolo 844 del codice civile); oppure determinati concetti (ad esempio: il concetto di buona fede nella esecuzione del contratto). La conoscenza procedurale, invece, è quella che ci permette di porre in essere un determinato compito: ad esempio, applicare una regola ad un problema, cercare la giurisprudenza che si è occupata di un determinato problema, redigere una comparsa conclusionale. Esiste, inoltre, un tipo di conoscenza che si sostanzia nella capacità di riflettere sulle modalità con le quali si sta svolgendo un compito: la conoscenza metacognitiva ci consente di capire, attraverso un meccanismo di pensiero riflessivo, se le attività che stiamo ponendo in essere ci permettono davvero di raggiungere l’obiettivo che ci siamo prefigurato (come può essere: scrivere una comparsa conclusionale davvero efficace).

Un’altra grande distinzione può essere tracciata tra una conoscenza esplicita e una conoscenza tacita o implicita. La prima è la conoscenza tradizionalmente intesa, facile da riconoscere, rendere palese e rappresentabile nei libri. La seconda non può essere reperita in nessun testo ma risiede nella testa delle persone come frutto delle esperienze passate, della interazione con le altre persone, della comprensione dei contesti in cui si agisce, anche di intuizioni e sensazioni a volte: una conoscenza che può essere compresa e condivisa solo da chi ha avuto esperienze analoghe.

L’esistenza di tipologie diverse di saperi è un fatto scontato per le agenzie che si occupano di formazione.

Secondo l’Unesco (l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura; in inglese: United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization da cui l’acronimo Unesco) l’educazione deve fondarsi su quattro pilastri: imparare a conoscere; imparare a fare; imparare ad essere; imparare a relazionarsi agli altri[xxvii].

Anche l’Unione Europea, facendo proprio l’approccio appena indicato, opera una tassonomia dei saperi che ogni forma di apprendimento deve mirare a far acquisire. Si veda la Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006 relativa a competenze chiave per l’apprendimento permanente (2006/962/CE). L’Unione ha varato anche l’istituzione di un Quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente (Qeq). Il Qeq fornisce una lingua comune per descrivere le qualifiche e aiuta gli Stati membri, i datori di lavoro e gli individui a confrontare le qualifiche dei diversi sistemi di istruzione e di formazione nell’UE. L’elemento chiave del Qeq è la descrizione degli otto livelli di qualifiche in termini di conoscenze, abilità e competenze (risultati dell’apprendimento) indipendentemente dal sistema in cui sono state apprese. Il Qeq è stato formalmente adottato con Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 aprile 2008 sulla Costituzione del Quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente.

La Raccomandazione da ultimo citata, per alcuni dei termini citati nel presente lavoro, fornisce le seguenti definizioni:

«Risultati dell’apprendimento»: descrizione di ciò che un discente conosce, capisce ed è in grado di realizzare al termine di un processo d’apprendimento. I risultati sono definiti in termini di conoscenze, abilità e competenze;

«Conoscenze»: risultato dell’assimilazione di informazioni attraverso l’apprendimento. Le conoscenze sono un insieme di fatti, principi, teorie e pratiche relative ad un settore di lavoro o di studio. Nel contesto del Quadro europeo delle qualifiche le conoscenze sono descritte come teoriche e/o pratiche;

«Abilità»: indicano le capacità di applicare conoscenze e di utilizzare know-how per portare a termine compiti e risolvere problemi. Nel contesto del Quadro europeo delle qualifiche le abilità sono descritte come cognitive (comprendenti l’uso del pensiero logico, intuitivo e creativo) o pratiche (comprendenti l’abilità manuale e l’uso di metodi, materiali, strumenti);

«Competenze»: comprovata capacità di utilizzare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e personale. Nel contesto del Quadro europeo delle qualifiche le competenze sono descritte in termini di responsabilità e autonomia.

Nella sua attività di insegnamento, il professore universitario deve proporsi di far apprendere: saperi, abilità e competenze. Utilizzando diverse strategie didattiche: dalla lezione frontale, al metodo casistico, dal cooperative learning ai giochi di ruolo e cosi via[xxviii].

 

 

  1. Le teorie dell’apprendimento.

 

Gli umani si caratterizzano per la capacità di apprendere. Ma come questo concretamente avvenga, è tuttora oggetto di dibattito. Nel corso del tempo molte scuole di pensiero hanno cercato di spiegare il funzionamento della mente. Sono state elaborate varie teorie sull’apprendimento e sui processi che si sviluppano quando impariamo. A valle di tali teorie sono state individuate metodologie, procedure e tecniche che suggeriscono le attività da porre in essere per aiutare le persone ad imparare.

Spesso le teorie muovono da presupposti differenti. Secondo alcune il soggetto che apprende è qualcosa da assimilare ad un vaso da riempire con nozioni, concetti, conoscenze e competenze. Altre, invece, muovono dal presupposto che chi conosce abbia già delle proprie doti e che compito dei processi formativi sia quello di far emergere ciò che già è presente, in nuce, nella sua mente. Sotto altro profilo, ci sono teorie che assegnano a chi impara il ruolo totalmente passivo di recettore delle informazioni fornite dai docenti o dai libri di testo. Altri approcci, invece, rivendicano un ruolo attivo del soggetto conoscente che deve individuare da sé ciò che merita di essere appreso trovando nel docente il soggetto che semplicemente gli offre un aiuto metodologico[xxix].

Di seguito si proverà a tracciare una possibile tassonomia tra i diversi approcci. Conviene precisare che ci si propone solo di individuare alcune grandi traiettorie di pensiero utili a fornire dei punti di riferimento a quanti si accostano a queste tematiche. Non è possibile, infatti, enucleare delle successioni temporali nette: spesso i diversi filoni si sono intersecati in un processo di evoluzione delle conoscenze sull’apprendimento ricco di rimandi reciproci.

 

  1. A) L’approccio comportamentista.

 

Si usa far coincidere la data di nascita del comportamentismo con la pubblicazione di un famoso articolo nel quale John Watson affermava che la psicologia, dal punto di vista behaviorista, è una branca della scienza naturale, oggettiva e sperimentale, volta a predire e controllare il comportamento[xxx].

Tra gli studiosi che hanno sviluppato l’approccio comportamentista si possono ricordare: Ivan P. Pavlov (1849-1936), John B. Watson (1878-1958), Edward L. Thorndike (1874-1949). In tempi più recenti, rilevanti sono stati i contributi di Burrhus Skinner (1904-1990) e di Edward C. Tolman (1886- 1959).

Gli assunti di questa scuola di pensiero possono essere così sintetizzati:

– nulla vi è di innato ma tutto si apprende dall’esperienza;

– l’apprendimento altro non è se non la continua creazione di nuove associazioni tra stimoli dell’ambiente esterno e risposte dell’individuo;

– le associazioni stimolo-risposta possono essere create grazie ad operazioni di condizionamento;

– concetti chiave sono le parole: stimolo, risposta, associazione, condizionamento, esercizio, effetto, rinforzo;

– l’insegnamento può essere visto come una forma di condizionamento attraverso il quale il docente, fornendo gli stimoli giusti, provoca nello studente l’apprendimento desiderato.

 

  1. B) L’approccio cognitivista.

 

A partire dagli anni cinquanta del secolo scorso, le teorie dell’apprendimento hanno subito l’influsso delle scienze cognitive che si proponevano di studiare la mente umana secondo un approccio di tipo sperimentale.

Secondo un’opera considerata come il manifesto del cognitivismo tutto quello che sappiamo della realtà è stato mediato non solo dagli organi di senso, ma da sistemi complessi che interpretano continuamente l’informazione fornita dai sensi[xxxi].

I processi cognitivi non possono essere osservati direttamente ma solo inferiti: per questo procedure e tecniche di osservazione sono radicalmente differenti rispetto a quelle utilizzate dai comportamentisti. I cognitivisti hanno messo in discussione anche un altro degli assunti alla base dell’approccio comportamentista: ovvero che l’apprendimento sia un processo passivo basato sull’idea che la memoria sia una specie di magazzino nel quale vengono accatastati e custoditi i dati conoscitivi.

Con l’accrescersi dell’influenza dell’approccio cognitivo, l’idea di un singolo sistema di memoria basato su associazioni stimolo-risposta fu lasciata cadere in favore dell’idea che fossero all’opera due, tre o forse più sistemi di memoria[xxxii]. I sistemi di memoria possono essere così sintetizzati:

Memoria sensoriale. Ha a che fare con la nostra percezione del mondo e ci consente di raccogliere gli stimoli che provengono dalla realtà circostante. Si parla di memoria iconica con riferimento agli stimoli visivi e di memoria ecoica in relazione agli stimoli sonori.

Memoria a breve termine (MBT). Con questa locuzione si usa fare riferimento all’immagazzinamento temporaneo di piccole quantità di informazioni per brevi intervalli di tempo.

Memoria di lavoro. Il concetto di memoria di lavoro poggia sull’assunto che vi sia un sistema per la ritenzione temporanea dell’informazione e che esso ci aiuti a svolgere molti compiti complessi. La maggior parte degli studiosi assume che la memoria di lavoro sia una sorta di spazio di lavoro mentale che offre una base al pensiero.

Memoria a lungo termine (MLT). Esiste un’ulteriore tipologia di memoria: quella a lungo termine dove le informazioni vengono codificate e conservate ai fini di un successivo recupero quando è necessario. Si usa distinguere tra memoria esplicita e memoria implicita. La memoria esplicita si suddivide in memoria episodica e in memoria semantica. La memoria implicita comprende le attività motorie (andare in bicicletta), le abilità (saper eseguire un compito), le procedure (sintassi e calcoli), i “copioni” (come ci si comporta al ristorante).

L’approccio cognitivista ci ha insegnato che esiste una correlazione importante tra memoria e apprendimento. In particolare esistono diverse forme di apprendimento che conducono a diverse forme di memoria[xxxiii]. Le ricadute in campo formativo dell’approccio cognitivista possono essere cosi sintetizzate:

  • il soggetto che apprende ha un ruolo attivo e si serve di strutture per rappresentare la propria conoscenza;
  • l’apprendimento è funzione delle attività di elaborazione e rielaborazione cognitiva;
  • per poter essere elaborate le informazioni devono essere codificate ovvero trasformate in un formato che può essere gestito dal sistema e successivamente conservate affinché possano essere richiamate al momento opportuno. Di qui l’importanza attribuita alle modalità di funzionamento di meccanismi quali la percezione e la memorizzazione;
  • perché sia effettivamente utile un dato deve essere memorizzato in modo significativo e non ripetitivo. Compito dell’insegnamento è favorire una memorizzazione profonda che implica un’attribuzione di senso ai contenuti in modo che questi possano essere sempre richiamati e costituiscano i prerequisiti per i nuovi apprendimenti;
  • mentre il comportamentismo fa leva sul rinforzo, i cognitivisti ritengono che l’elaborazione cognitiva sia favorita dalle motivazioni intrinseche ed estrinseche del soggetto e dall’attenzione verso contenuti proposti in maniera interessante.

 

 

  1. C) L’approccio costruttivista.

 

Da una evoluzione del cognitivismo è nata la teoria dell’apprendimento denominata costruttivismo[xxxiv].

Questa diversa impostazione, cui possono essere ricondotte le riflessioni di studiosi come Piaget e Vygotskij, muove dalla consapevolezza della difficoltà di definire i concetti di conoscenza e di realtà i quali non possono darsi fuori dalla mente di un soggetto. Non esiste un soggetto separato dalla realtà, né una realtà preesistente all’atto di conoscenza perché è il soggetto stesso a definire il tutto. Il luogo della conoscenza non si situa né nel soggetto né nell’oggetto ma nella interazione tra il soggetto e l’oggetto. La conoscenza non nasce dalla realtà ma dalla costruzione di ipotesi interpretative della realtà stessa.

Secondo questo approccio l’apprendimento è:

  • un processo costruttivo e strategico. Al centro dell’apprendimento c’è il soggetto (approccio student-centered);
  • un processo concretamente situato. L’apprendimento non ha valenza astratta ma risente del contesto, ovvero della dimensione sociale e storicoculturale nella quale il soggetto opera e si caratterizza per la capacità di assumere significato nel mondo reale ad esempio nella soluzione di problemi;
  • un processo interattivo nascente dalla collaborazione sociale e dalla comunicazione interpersonale.

 

  1. Il ruolo del professore universitario nei processi di apprendimento dei futuri giuristi.

 

Il pensiero occidentale è caratterizzato dal mito della razionalità. Esso presuppone l’esistenza di una realtà oggettiva esterna retta da leggi immutabili che un soggetto intelligente può conoscere usando metodologie ben definite. Questo modello si è andato via via modificando perché è cambiata: a) l’idea di cosa sia la conoscenza; b) l’idea di come si conosce. Esistono diversi tipi di conoscenza: una conoscenza esplicita ed una conoscenza implicita[xxxv]; una conoscenza teorica e una conoscenza pratica e situata[xxxvi]. Inoltre in tutti campi dello scibile (dalla fisica, alla psicologia) ci si è resi conto dell’impossibilità di creare una distinzione netta tra soggetto conoscente e realtà da conoscere (non fosse altro perché il primo fa parte della seconda ed interagisce con essa). Del pari si è capito che il soggetto conoscente può avere prospettive multiple ed eterogenee. Nell’idea tradizionale esso coincideva con l’uomo razionale. Oggi ci si rende conto che il soggetto conoscente può muovere da paradigmi diversi perché è plurale, sessuato, non occidentale-centrico, in qualche caso persino post-umano.

Queste riflessioni di taglio certamente più filosofico hanno ricadute non secondarie sul ruolo del professore. C’è chi lo vede come mero dispensatore di nozioni e chi lo considera una guida nel processo autonomo di scoperta. Anche del soggetto che apprende si può avere una concezione diversa: può essere semplicemente una spugna che assorbe e ripete, ma può anche diventare un elaboratore di informazioni, ovvero un costruttore di significati capace di apprendere ed aggiornarsi autonomamente in modo intenzionale ed orientato. Un soggetto capace di autovalutarsi. Le opzioni epistemologiche di base possono portare a preferire alcune metodologie didattiche rispetto ad altre. Esse, infatti, possono limitarsi ad esposizioni unidirezionali cui corrispondono interrogazioni di verifica. Oppure possono ricomprendere tecniche che assicurano maggiore partecipazione ed interattività.

Qualche esempio può servire a chiarire quanto appena detto in chiave generale. Chi abbraccia l’idea secondo la quale il giurista è solo la bocca della legge ritiene che la persona impegnata a formare i futuri giuristi debba sostanzialmente insegnare le tecniche esegetiche del dato normativo. Se invece si difende l’approccio cosiddetto scientifico al diritto dominante nell’800 si deve concludere che ai giuristi in erba occorra insegnare i segreti della dogmatica. E così via. Insomma il professore può assumere diversi ruoli. Proviamo ad elencarne alcuni.

Indottrinatore. Se il diritto è sistema perfetto e armonico dove esistono solo regole chiare e interpretazioni corrette il docente è un dispensatore di verità che il discente deve mandare a memoria senza alcuno sforzo critico e senza che si possa anche lontanamente pensare ad un suo ruolo autonomo e creativo. Mi pare di poter dire che chi diede vita all’esperienza esitata nel libro “Diritto privato. Una ricerca per l’insegnamento”, ricordato all’inizio di queste pagine, criticasse aspramente siffatto tipo di approccio[xxxvii].

Istruttore. Se il giurista è soltanto qualcuno che, come una macchinetta, applica procedure standard nell’assolvere i propri compiti (ad esempio: scrivere una sentenza applicando sillogisticamente regole astratte ad una fattispecie concreta) allora il docente deve trasmettere degli script o degli algoritmi utili per le diverse situazioni (sempre identiche) che il discente si troverà ad affrontare.

Mediatore. In una diversa prospettiva il docente è l’interfaccia tra una conoscenza (che egli già possiede in toto) e un allievo (che deve acquisirla). Egli traduce i dati conoscitivi che a prima vista appaiono ostici in una modalità più digeribile.

Orientatore. Guardando le cose con maggiore realismo si deve ammettere che nessuno, nemmeno il migliore dei docenti, possiede l’intera conoscenza: l’acquisizione di quest’ultima è un processo continuo e inesauribile che richiede specifiche metodologie. Tali procedure sono racchiuse in una semplice frase: il segreto dell’apprendimento è imparare ad imparare. In questa diversa e più appagante prospettiva il docente è colui che insegna ad impadronirsi dei meccanismi dell’apprendimento in una relazione biunivoca con il discente avendo come finalità quella di formare persone in grado di apprendere autonomamente automotivandosi, autoregolandosi e autovalutandosi.

Occorre considerare che i docenti, al pari degli studenti, hanno propri stili cognitivi, propri stili di apprendimento, proprie concezioni e così via. Gli uni e gli altri hanno, o dovrebbero avere, una propria progettualità che negli apprendimenti di tipo formale sono destinate a convivere. Tanto più le progettualità diventano sinergiche tanto più il processo di apprendimento sarà efficace. Se viceversa le reciproche aspettative si dirigono in direzioni opposte è molto probabile che ci si trovi di fronte ad esperienze frustranti per tutti. Alcune difficoltà nell’apprendimento nascono da “dissonanze di stile”: chi insegna imposta il lavoro secondo stili di pensiero/apprendimento diversi da quelli di chi apprende.

Quanti si preoccupano, a livello universitario e postuniversitario, di formare i futuri giuristi oltre a misurarsi con le variabili prima richiamate, devono possedere alcune qualità. In particolare devono:

– conoscere i meccanismi dell’apprendimento;

– essere intrinsecamente motivati;

– essere capaci di monitorare i processi di apprendimento;

– essere capaci di autovalutarsi.

Saper insegnare è una abilità che si impara e si affina con l’esperienza. Per diventare un docente esperto è fondamentale applicare la riflessione metacognitiva alla propria azione: chi insegna deve costantemente riesaminare la propria attività; fissare degli obiettivi di miglioramento; usare una pratica mirata e dei feedback per raggiungere gli obiettivi. I professori devono essere in grado di riflettere sui meccanismi cognitivi che pongono in essere nella loro attività di professore e, se del caso, usare dette conoscenze per migliorarsi.

 

 

  1. Tanti anni fa: uno studente e un Professore.

 

Ho conosciuto Roberto Pardolesi quaranta anni fa, quando iniziai a frequentare il corso di laurea in Giurisprudenza (allora quadriennale) presso l’Università di Bari. Lo ascoltai, già al primo anno, tenere alcuni seminari di approfondimento nell’ambito dell’insegnamento di Diritto privato. Due anni dopo, nell’anno accademico 1980-81, memore proprio dell’interesse suscitato da quelle prime sue lezioni, frequentai il corso di Diritto privato comparato di cui Roberto Pardolesi era titolare. Il libro di testo consigliato era quello di David: occorreva studiarlo per avere le nozioni di base della metodologia comparatistica e della macrocomparazione[xxxviii]. Ma l’argomento trattato a lezione fu la privacy. Parliamo di anni nei quali non esisteva una legge italiana in materia e in tutto il mondo il tema appariva come nuovo e nebuloso[xxxix]. Conservo ancora gli appunti del corso e di tanto in tanto vado a rivederli.

Di quel corso ricordo tuttora: l’approccio per problemi (rivedendo gli appunti, ci si accorge che spesso le lezioni iniziavano con degli interrogativi, cui poi veniva data risposta); l’enfasi sull’analisi interdisciplinare (attraverso, ad esempio, i frequenti agganci alla analisi economica); l’attenzione alla giurisprudenza (ci fu un scavo certosino dei pochi casi allora esistenti); la ricerca del coinvolgimento degli studenti (spesso si aprivano discussioni sull’argomento che si stava affrontando); l’invito a seguire proprie traiettorie di approfondimento (sovente andavo in biblioteca a cercare saggi e libri che trattavano di argomenti affrontati a lezione); le modalità di verifica dell’apprendimento (noi frequentanti sostenemmo una prova scritta alla fine del corso: è stato l’unico esame scritto dei miei anni da studente universitario).

Ma l’esperienza didattica non si esauriva con gli incontri a lezione. Roberto Pardolesi offrì, a chi fosse mostrato interessato, la possibilità di massimare e annotare sentenze per la rivista “Il Foro italiano”. Accettai con curiosità. Mi si aprì un mondo. Insegnò a chi volle cimentarsi con questa impresa, l’uso dei Repertori e, quindi, le tecniche di ricerca dei dati giuridici. Soprattutto insegnò a molte a persone come si affronta un ragionamento giuridico con rigore metodologico e come si “scrive di diritto”. È stata una palestra ineguagliabile. La mia prima nota redazionale fu pubblicata nel numero di maggio 1981 del Foro italiano: ancora da studente, quindi. Una bella lezione di “fiducia nei giovani” (anche da parte dell’allora Direttore di quella Rivista, il compianto Carlo Scialoja).

Mi pare di poter dire che Roberto Pardolesi non assomigli affatto ad alcune delle tipologie di professori viste prima. Non al “professore autoritario” (protagonista di “The Paper Chase”), né al “barone cinico” (de “La meglio gioventù”), né al “professore distaccato” (come Nash, in “A beautiful mind”). Forse assomiglia di più al modello del coach. Ai miei occhi Roberto Pardolesi riuscì a tirare fuori le potenzialità che c’erano in ognuno di noi. Molte delle persone che frequentarono quel corso (oggi: avvocati, magistrati o professori universitari a loro volta) sono rimasti amici. Forse perché l’esperienza unica che li fece incontrare li ha resi omogenei nel modo di pensare.

Utilizzando le “categorie” pedagogiche moderne, Roberto Pardolesi mise al centro del suo progetto di insegnamento gli studenti. Insegnò non solo il sapere giuridico (comparatistico, in quel caso), ma anche abilità e competenze: saper fare comparazione, saper ricercare i dati giuridici, saper scrivere saggi giuridici e così via. Insegnò anche quelle che oggi vengono definite soft skills: il saper essere squadra, i segreti della leadership, e simili. Insegnò la curiosità per la scoperta e la voglia di battere nuove strade. Ovviamente, tutto questo ha continuato a farlo anche dopo il momento in cui io lo ebbi come professore.

Se guardo ad alcuni miei interessi di ricerca e al mio modo di intendere la didattica universitaria del diritto non faccio fatica a scorgere l’imprinting che è derivato dagli insegnamenti di Roberto Pardolesi. Un motivo in più per manifestargli gratitudine.

 

 

[i] La legge 30 dicembre 2010, n. 240 (cosiddetta “riforma Gelmini”) contiene “Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario”. In argomento A.M. Arcari e G. Grasso (a cura di), Ripensare l’università: un contributo interdisciplinare sulla Legge 240 del 2010, Giuffrè, Milano 2011.

[ii] Da qualche tempo si usa parlare della cosiddetta ‘terza missione’ delle Università, ovvero del contributo che esse forniscono allo sviluppo economico e culturale della società. A ben vedere si tratta di una ricaduta, a livello di istituzione nel suo complesso, delle attività menzionate nel testo, che restano quelle di fondo del singolo professore.

[iii] P. G. Rossi, P. Magnoler e M. Marcelli, Quale rapporto tra didattica e ricerca nella formazione universitaria?, in AA. VV., Il futuro della ricerca pedagogica e la sua valutazione, Armando, Roma 2012, pp. 529 e ss.

[iv] N. Lipari (a cura di), Diritto privato. Una ricerca per l’insegnamento, Laterza, Bari 1974.

[v] Alla stesura del libro, come componente del gruppo di ricerca, partecipò anche Roberto Pardolesi. In particolare egli scrisse i paragrafi dedicati ad “Impresa, mercato e intervento statale” del capitolo su “L’attività di impresa e i privati nel processo economico”.

[vi] Per una distinzione tra ‘sapere coltivato’ e ‘sapere insegnato’ e sulle ragioni per le quali un certo sapere debba essere anche insegnato (come parte di un progetto complessivo) in vista di un obiettivo formativo sia consentito rinviare a G. Pascuzzi, L’insegnamento del diritto comparato nelle università italiane, Trento Law and Technology Research Group Research Papers 1, scaricabile all’indirizzo http://eprints.biblio. unitn.it/archive/00001878/01/Trento_ Lawtech_Research_Paper_1.pdf.

[vii] Sul concetto di obiettivo formativo v. G. Pascuzzi, Giuristi si diventa. Come riconoscere e apprendere le abilità proprie delle professioni legali, Il Mulino, Bologna 2013.

[viii] Per approfondimenti v. G. Pascuzzi, Avvocati formano avvocati. Guida all’insegnamento dei saperi forensi, Il Mulino, Bologna 2015, pp. 185 e ss.

[ix] https://www.youtube.com/watch?v=qx22TyCge7w

[x] https://www.youtube.com/watch?v=hd88ktcGndc

[xi] G. Pascuzzi, Cosa intendiamo per «metodo casistico»?, Foro it., 2016, V, col. 334 e ss.

[xii] https://www.youtube.com/watch?v=N0VYLTYwx3s

[xiii] https://www.youtube.com/watch?v=GsQR49oGJho

[xiv] https://www.youtube.com/watch?v=JWdlCCS8kIA.

[xv] Il film è un adattamento cinematografico dell’autobiografia di Alan Dershowitz, professore presso la Law School di Harvard.

[xvi] Sulle legal clinics v. G. Pascuzzi, Giuristi si diventa, cit., pp. 214 ss. Il film consente di vedere buona parte delle abilità collegate al lavoro di squadra: collaborare con gli altri per raggiungere un obiettivo comune; coordinare e condividere informazioni e conoscenze; coltivare i rapporti con colleghi, collaboratori, clienti, esperti, fornitori e altri; assistere e partecipare a eventi di gruppo, riunioni e conferenze.

[xvii] A. Schiavone, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Torino, Einaudi, 2005.

[xviii] G. Pascuzzi, La creatività del giurista. Tecniche e strategie dell’innovazione giuridica, Zanichelli, Bologna, 2013.

[xix] M. Jori e A. Pintore, Manuale di teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino,1988; Friedman, W. G., Legal theory, Stevens, London, 1960.

[xx] U. Vincenti, Metodologia giuridica, Cedam, Padova, 2008.

[xxi] K. Larenz, Storia del metodo nella scienza giuridica, Giuffrè, Milano, 1966.

[xxii] R. Orestano, Sulla didattica giuridica in Italia tra il XIX e il XX secolo, in L’educazione giuridica. Modelli di Università e progetti di riforma, Libreria universitaria, Perugia, 1975.

[xxiii] K. Larenz, Storia del metodo nella scienza giuridica, cit., p. 15.

[xxiv] K. Larenz, Storia del metodo nella scienza giuridica, cit., p. 22.

[xxv] R. De Ruggiero, I dogmi del diritto privato e la loro revisione, in Arch. giur., 1927, 133.

[xxvi] R. Orestano, Sulla didattica giuridica in Italia tra il XIX e il XX secolo, cit., p. 144.

[xxvii] J. Delors (a cura di), Nell’educazione un tesoro. Rapporto all’Unesco della Commissione internazionale sull’educazione per il 21° secolo, Roma, Armando, 1997. Versione inglese scaricabile all’indirizzo http://unesdoc.unesco.org/images/0010/001095/109590eo.pdf.

[xxviii] Per un approfondimento sulle diverse strategie didattiche v. G. Pascuzzi, Avvocati formano avvocati, cit., pp. 97 e ss.

[xxix] A. Antonietti e M. Cantoia, Come si impara. Teorie, costrutti e procedure nella psicologia dell’apprendimento, Mondadori Università, Milano, 2010, p.66.

[xxx] J. B. Watson, J. B., Psychology as the behaviorist views it, in Psychological review, n. 20, 1913, pp. 158-177.

[xxxi] U. Neisser, Cognitive Psychology, Englewood Cliffs, Prentice Hall, N.J. 1967; trad. it. Psicologia cognitivista, Giunti-Martello, Firenze,1976, p. 13.

[xxxii] A. Baddeley, M. W. Eysenck e M. C. Anderson, La memoria, Il Mulino, Bologna, 2011.

[xxxiii] A. Baddeley, M. W. Eysenck e M. C. Anderson, La memoria, cit., p. 95.

[xxxiv] B. M. Varisco, Costruttivismo socioculturale, Carocci, Roma, 2002.

[xxxv] M. Polanyi, La conoscenza inespressa, Armando, Roma, 1979.

[xxxvi] S. Gherardi e A. Strati, Learning and knowing in practice-based studies, Edward Elgar, Cheltenham-Northampton, 2012.

[xxxvii] N. Lipari (a cura di), Diritto privato. Una ricerca per l’insegnamento, cit.

[xxxviii] R. David, I grandi sistemi giuridici contemporanei, CEDAM, Padova, 1973.

[xxxix] Qualche anno prima Stefano Rodotà aveva pubblicato il libro dal titolo Elaboratori elettronici e controllo sociale (Il Mulino, Bologna, 1973).

 

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