La pratica collaborativa, a cura di M. Sala e C. Menichino

Il 19 ottobre è stato presentato nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento il volume dal titolo “La pratica collaborativa. Dialogo tra teoria e prassi” curato da Marco Sala e da Cristina Menichino, (Utet 2017).

Silvana Dalla Bontà (processualcivilista della Facoltà e responsabile scientifico dell’evento) mi  ha chiesto di tenere, subito dopo i saluti di rito, l’intervento di apertura. Ho scelto (come si evince dalla locandina dell’evento) un titolo volutamente provocatorio: “Dalla dogmatica alla pratica collaborativa”.

La parola dogmatica vuol dire tante cose:

  1. Un (l’unico?) modo rigoroso di costruire il ragionamento giuridico.
  2. Un approccio al diritto che esclude in maniera categorica l’influenza su di esso di altri saperi.
  3. Una concezione secondo cui la funzione del giurista è applicare regole a problemi.
  4. Un modello che ammette una sola soluzione corretta/giusta di un caso con la conseguenza che c’è chi ha ragione e chi ha torto; chi vince e chi perde.
  5. Un paradigma che poggia sul contenzioso.

E’ anche vero, però, che la dogmatica è in crisi perché da tempo sappiamo che:

  1. Esistono più modi di costruire il ragionamento giuridico (esegesi, analisi economica del diritto, solo per fare degli esempi).
  2. Un diritto chiuso ad altri saperi è sterile: sociologia, scienze cognitive, economia (e altro ancora) offrono al diritto utili strumenti di comprensione e governo della realtà sociale. Non capiremmo nulla del diritto antitrust se non avessimo la nozione economica di “posizione dominante”.
  3. Il giurista è un “problem solver”: certamente perché applica regole a problemi; ma anche perché scrive regole per risolvere problemi e perché “costruisce significati” (la stessa interpretazione è un problema).
  4. Esistono modi diversi di risolvere i conflitti: qualcuno cerca di trovare soluzioni di problem solving cosiddette win-win o comunque soluzioni che non producano necessariamente vincitori e vinti
  5. La logica contenziosa può essere sostituita dalla logica collaborativa.

Da tempo le principali agenzie formative hanno introdotto la distinzione tra sapere e abilità (si rinvia per approfondimenti al libro Giuristi si diventa).

Un giurista deve padroneggiare certamente il sapere giuridico, ma anche il “saper fare” e il “saper essere” (per una definizione normativa di questi concetti, si veda la Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 aprile 2008 sulla Costituzione del Quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente).

In particolare il giurista deve padroneggiare molte skills. Ad esempio deve saper:

Il fatto che il giurista debba padroneggiare oltre al sapere, anche il saper fare e il saper essere ha delle ricadute sul piano della formazione. Mentre il sapere dichiarativo si apprende essenzialmente attraverso il linguaggio, saper fare e saper essere si apprendono attraverso l’osservazione, l’imitazione e l’esperienza. Per formare un giurista completo, e, quindi, per far apprendere il sapere, il saper fare e il saper essere, occorre affiancare alle tradizionali lezioni frontali anche nuove strategie didattiche che facciano leva sul cosiddetto “apprendimento esperienziale” (per approfondimenti si rinvia al volume “Avvocati formano avvocati”).

Date queste premesse, ho chiuso la mia introduzione spiegando che la Pratica collaborativa è il frutto di un modo diverso (e non dogmatico…):

  • di guardare alle funzioni del diritto;
  • di intendere il ruolo del giurista/avvocato (non solo l’avvocato del contenzioso ma anche l’avvocato collaborativo);
  • di progettare e realizzare la formazione del giurista.

La Pratica Collaborativa è un metodo non contenzioso di risoluzione dei conflitti, in particolare in ambito familiare.

Francesca Cuomo Ulloa (del Foro di Genova) ha quindi preso la parola per delineare il quadro variegato degli strumenti alternativi di soluzione delle controversie. Un quadro che, a dispetto forse delle intenzioni, si caratterizza per l’esistenza di un elevato grado di formalismo di tali strumenti.

È stata poi la volta di Gloria Servetti, Presidente della Corte d’Appello di Trento. Ha cominciato il suo intervento chiedendosi se davvero il processo è un modo di soluzione delle controversie. Certamente definisce una controversia ma non la risolve. Definire è cosa diversa dal risolvere. Il conflitto non muore con la decisione del giudice. La sentenza giurisdizionale a volte alimenta, addirittura, il conflitto: perché risveglia il rancore o perché dà fiato alle rivendicazioni.

Specie nell’ambito familiare è difficile governare le relazioni interpersonali. La Pratica collaborativa è un tavolo a cui siedono più soggetti che perseguono l’obiettivo di non far diventare processuale la vicenda; l’obiettivo di trasformare il conflitto. Il tavolo della Pratica collaborativa non deve essere un tavolo delle trattative, bensì un tavolo delle soluzioni.

La prima sessione si è conclusa con l’intervento di Elisabetta Valentini (Avvocato in Trento) che ha spiegato i principi e il metodo della Pratica collaborativa. Muovendo però da una premessa: il ‘900 è stato l’età del diritto in cui si è vissuta una specie di “euforia giuridica”. Un’età che si è poggiata su 3 pilastri (corrispondenti ad altrettanti modi di intendere la professione dell’avvocato):

  1. la focalizzazione sul diritto: i bisogni del cliente sono rilevanti solo se riconducibili alle fattispecie previste dalla legge (ma i bisogni sono molto più che questo);
  2. la fiducia assoluta nei tribunali: non c’è giustizia senza processo;
  3. il ruolo centrale dell’avvocato “litigator” che: assume il “comando” della controversia; riformula il bisogno del cliente per adattarlo alla norma; porta il “peso” anche piscologico della “causa”.

Questo modo di “vedere” il diritto sta mutando. E la Pratica collaborativa dà corpo a questo mutamento.

Nella Pratica collaborativa:

  • il professionista lavora lontano dal Tribunale (tecnicamente l’accordo che emerge al termine della procedura può sfociare -in ambito familiare- o nella separazione consensuale o nell’accordo di negoziazione assistita);
  • il focus è rappresentato dagli interessi e dai bisogni delle parti;
  • l’accordo deve soddisfare tali interessi e tali bisogni;
  • il lavoro si svolge in team: oltre agli avvocati collaborativi di ciascuna parte, al tavolo possono sedere: il facilitatore della comunicazione, l’esperto dell’età evolutiva e l’esperto finanziario;
  • ciascuno di questi soggetti mette a disposizione le proprie abilità collaborando al fine di giungere all’accordo tra le parti;
  • il perno giuridico della Pratica collaborativa è “l’Accordo di partecipazione” (un modello di tale accordo è riportato in appendice al libro curato da Menichino e Sala): le parti lo sottoscrivono impegnandosi a risolvere il loro conflitto attraverso questa procedura e accogliendo i principi di buona fede, trasparenza e riservatezza cui la stessa è ispirata;
  • l’Accordo di partecipazione è sottoscritto, in parte qua, anche dagli avvocati che assumono soprattutto l’impegno di non assistere la parte nel processo contenzioso nel caso non si dovesse pervenire all’accordo (cosiddetto “Mandato limitato”).

Dopo una breve pausa è cominciata una tavola rotonda, guidata da Elisabetta Valentini, cui hanno preso parte: Cristina Menichino (Avvocato a Milano), Marco Sala (Avvocato a Milano), Francesca Araldi (Avvocato a Milano), Iris Franceschini (Pedagogista a Bolzano), Valeria Matacotta (Psicologa a Rovereto), Michele Tavernini (Commercialista a Riva del Garda).

Grazie anche alle numerose domande formulate dal pubblico (in prevalenza studenti e professionisti) sono emersi ulteriori elementi utili a comprendere il fenomeno della Pratica collaborativa.

  • La differenza con la mediazione familiare. Nella mediazione non c’è il giurista e quindi può accadere che un accordo raggiunto in quella sede poi non regga al vaglio giuridico. Nella Pratica collaborativa gli avvocati sono presenti sin dal primo momento. Non tutti, poi, sono in grado di affrontare una mediazione senza avere a fianco qualcuno (come l’avvocato nella Pratica collaborativa). Il mediatore essendo di regola solo, può finire per esercitare una involontaria influenza sulle parti, evenienza scongiurata ad un “tavolo” dove è presente un team.
  • Gli ambiti. La Pratica collaborativa opera molto bene in tutti gli ambiti nei quali c’è un rapporto che vuole essere mantenuto nel tempo ovvero nelle ipotesi nelle quali c’è un bene comune che vuole essere preservato: si pensi, oltre al conflitto familiare, ai conflitti tra soci e a quelli tra coeredi.
  • Il contesto. Iris Franceschini ha spiegato che la “battaglia per i diritti” nel secolo scorso vedeva un contesto nel quale occorreva far prevalere dei diritti in un “contesto retrogrado”. Oggi questo contesto è profondamente cambiato e anche il conflitto tra uomo e donna può essere visto come un conflitto interculturale. Si passa dalla “battaglia” alla osservazione dei punti di vista. Occorre far uscire il rapporto uomo-donna dalla logica della polarizzazione, della colpevolizzazione, della inimicizia. La Pratica collaborativa aiuta a superare il cosiddetto “sequestro emozionale” grazie al coinvolgimento degli esperti.
  • Il conflitto. Cristina Menichino ha molto insistito sulla necessità di imparare a gestire i conflitti (anche seguendo appositi corsi di formazione): i conflitti tra le parti e i propri conflitti interiori.
  • Collaborativi si diventa. Non ci si improvvisa avvocati collaborativi. Occorre frequentare dei corsi iniziali (basati su esposizioni di teoria e strategie esperienziali) e poi i corsi di formazione continua (per informazioni si veda il sito della Associazione Italiana Professionisti Collaborativi).

La Pratica collaborativa segna un cambio di paradigma. A pagina 80 del libro curato da Sala e Menichino si legge:

La particolarità dell’ approccio collaborativo – “le parti al centro”, il lavoro di squadra, l’interdisciplinarità, la ricerca degli interessi – esige che i professionisti che lo praticano abbiano effettuato il cosiddetto “cambio di paradigma” che può essere definito come un cambiamento radicale di prospettiva rispetto al modo in cui i professionisti del conflitto percepiscono il loro ruolo; l’abbandono della logica avversariale e direttiva basata sui diritti e sulle posizioni e una “riconversione” all’approccio collaborativo, fondato sull’ ascolto, sull’empatia e sulla ricerca condivisa degli interessi, consentono ai professionisti di aiutare i loro clienti a creare quel clima di fiducia e trasparenza propizio al raggiungimento di un accordo soddisfacente per le parti”.

Mi pare di poter dire che al termine della interessante presentazione dell’altrettanto interessante volume dal titolo “La pratica collaborativa. Dialogo tra teoria e prassi” curato da Marco Sala e da Cristina Menichino, (Utet 2017) risulti confermata l’affermazione con la quale avevo chiuso il mio intervento introduttivo; ovvero che esistono modi diversi:

  • di guardare alle funzioni del diritto;
  • di intendere il ruolo del giurista/avvocato (non solo l’avvocato del contenzioso ma anche l’avvocato collaborativo);
  • di progettare e realizzare la formazione del giurista.
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