1.-«Il medico pratico si istituisce in primo tempo con l’anatomia e l’istologia normale, passa poi alla fisiologia, indi all’anatomia patologica e alla patologia generale…. Finalmente giunge al contatto di quel reale, il cui possesso è la meta ultima della sua cultura, il coronamento dell’edificio: il malato, la clinica» (G. Viola, Scienze cliniche, in Enciclopedia italiana, vol. X, pag. 607).
Non so se sarebbe possibile tentare un paragone tra la partizione delle cosiddette materie d’insegnamento nella medicina e nella giurisprudenza; ma una verità è certa: che, a differenza dal futuro medico, il futuro giurista, finché rimane nell’ università, «al contatto di quel reale, il cui possesso è la meta ultima della sua cultura», non arriva mai.
Domando: è questa un inferiorità dell’ insegnamento della giurisprudenza in confronto con quello della medicina? E se è tale, c’è modo di porvi rimedio ?
2. Inferiorità, si. Bisognerebbe per dubitarne, poter credere che solo i medici e non i giuristi abbiano da fare col reale o, meglio, col concreto. C’è bisogno di combattere questo errore? Tanto noi quanto loro operiamo sull’uomo; varia il punto di vista chè essi lo considerano in sè, come individuo e perciò come tutto, e noi in relazione con gli altri uomini, come cittadino e cosi come parte; ma
la materia è sempre una : la divina umanità. II giurista pratico, che ha almeno tre incarnazioni: legislatore, giudice e avvocato, taglia, come il medico, sulla carne viva; cosi anche quando, anziché di me o di te si tratta del mio del tuo, poiché, a questo mondo, non v’è un coltello per separare l’essere dall’avere. Cosa si direbbe dunque di un dottore in medicina, al quale non abbiano fatto mai vedere un malato?
Eppure noi continuiamo a vivere in questo assurdo quanto alla giurisprudenza. Se non ci hanno provveduto da sè, i nostri discenti diventano dottori, senza aver mai veduto un caso vivo del diritto.
Noi insegniamo a loro certamente qualcosa che somiglia alla fisiologia o alla patologia; comincio ad essere meno certo che vi sia fra i nostri insegnamenti, uno che risponda al concetto dell’anatomia: in ogni modo alla clinica è fuor di questione che non si pensa nemmeno.
3.-Lo so: noi diciamo che la laurea è un titolo scientifico non un titolo professionale; difatti per esercitare ufficio di giudice o di avvocato alla laurea deve aggiungersi non tanto un altro esame quanto il tirocinio. E si può ammettere che, sulla carta, il tirocinio dovrebbe essere appunto qualcosa che equivale all’ insegnamento clinico….
b) Del resto per quel che conta nella realtà c’è poco da rimpiangere il difetto di tirocinio. In teoria, dicevo, questo dovrebbe essere davvero una forma di insegnamento che corrisponde, su per giù, all’ insegnamento clinico. Dovrebbe, appunto, fornire al discente quella somma di cognizioni e di esperienze, che si riferiscono non tanto al sapere quanto al saper fare; insomma insegnargli ad applicare le regole che costituiscano il sapere ; gli si presenta il caso e gli si mostra come si fa; per i medici il caso è il malato o per metafora il letto, donde il nome di clinica proviene; per noi sarà, per esempio, un contratto o un reato e così, insomma, un accordo o un contrasto fra due uomini; naturalmente non ha da essere un caso qualunque, ma scelto e preparato; fra altro, requisiti di un buon tirocinio sono l’ordine e la compiutezza delle esperienze. Non si sbaglia dicendo, il che del resto fra i medici nessuno discute, che questa è la forma di insegnamento più difficile e più alta; qui occorre al maestro non soltanto il sapere, ma il saper fare e cosi far bene e insieme scoprire e mostrare le ragioni del ben fare, il che esige un compiuto dominio della scienza e dell’arte: per il clinico il malato non è tanto un soggetto da curare, quanto il fuoco in cui convergono grovigli di ragioni da discernere, da classificare, da valutare, da chiarire e cosi il punto di incontro dell’arte e della scienza….(continua a leggere nel pdf)
Francesco Carnelutti, Clinica del diritto, in Rivista di diritto processuale, 1935, I, 169.
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