Sull’editoriale di Mark Zuckerberg

DiGiovanni Pascuzzi

3 Aprile 2019

Lo scorso 30 marzo Mark Zuckerberg ha pubblicato sul Washington Post un editoriale che ha generato vasta eco in tutto il mondo.

L’inventore di Facebook sostiene che Internet ha bisogno di nuove regole e chiede ai legislatori/regolatori di farsi carico del problema.

Un mio commento è apparso su Ilsussidiario.net del 3 aprile.

 

Vasta eco sta generando in tutto il mondo l’editoriale che Mark Zuckerberg ha pubblicato lo scorso 30 marzo sul Washington Post. L’inventore di Facebook sostiene che Internet ha bisogno di nuove regole e chiede ai legislatori/regolatori di farsi carico del problema. In particolare egli indica 4 temi sui quali intervenire con urgenza:

a) i cosiddetti contenuti dannosi: occorre definire cosa bisogna considerare, ad esempio, propaganda terroristica oppure incitamento all’odio e stabilire come intervenire per contrastare tali fenomeni;

b) la propaganda elettorale: dopo il caso “Cambridge Analytica” ci si è resi conto che la pubblicità sui social può essere utilizzata addirittura per manipolare il voto delle persone con effetti perversi facilmente intuibili. Di qui la necessità di regolamentare la comunicazione elettorale on-line;

c) la privacy: Zuckerberg auspica che siano estesi a tutto il mondo i principi in materia di privacy sanciti dall’Unione Europea, in particolare nel Regolamento generale sulla protezione dei dati n. 2016/679;

d) la portabilità dei dati: occorrerebbe garantire a ogni persona che ha fornito dati a determinati soggetti di poterli trasmettere ad altri soggetti senza che vengano frapposti ostacoli (ad esempio: quando si vuole cambiare il fornitore di un servizio).

L’articolo è interessante per molte ragioni. Proviamo ad elencarne alcune.

Ancora oggi molte persone ritengono che Internet debba essere totalmente libera da qualsiasi tipo di regolamentazione. La visione romantica delle origini vede la rete come luogo totalmente privo di intermediazioni nel quale ognuno deve potersi esprimere liberamente. Ma la cronaca quotidiana ci offre esempi di comportamenti odiosi commessi e amplificati grazie a Internet.

Significativa è anche l’implicita dichiarazione di resa del titolare del principale social network del pianeta (Facebook ha più di due miliardi di utenti attivi). Zuckerberg afferma di aver provato a definire cosa sia incitamento all’odio, a combattere gli avvisi elettorali subdoli e illeciti, anche confrontandosi con giuristi di vaglia. Ma ammette anche di non essere riuscito a fornire risposte univoche. In più si è reso conto che prendere decisioni di questo tipo significa attribuirsi un potere enorme, che non è il caso di lasciare a soggetti privati.

Ma se la rete deve essere regolata, a quale livello questo deve avvenire? E in che modo? Sotto il primo profilo è importante chiedersi, ad esempio, se un fenomeno indifferente ai confini nazionali (come Internet, appunto) possa essere efficacemente regolato dalle legislazioni nazionali che, per definizione, nei confini nazionali trovano il limite di efficacia: il livello sovranazionale potrebbe essere più promettente. Per quel che riguarda il secondo profilo, invece, occorre chiedersi se il paradigma giuridico tradizionale (ovvero: obbligo/divieto con sanzione comminata da un tribunale in caso di inosservanza) sia davvero il più idoneo a governare un fenomeno che consente interazioni molteplici e immediate, ovvero un fenomeno contraddistinto dalla rapidità e dalla pervasività degli effetti che mal si concilia con i tempi più dilatati della giustizia ordinaria. A tacere della difficoltà, da parte dei giudici nazionali, di reprimere comportamenti resi possibili da server che si trovano all’estero.

In sintesi Zuckerberg sembra dirci tre cose: gli utenti della rete non sono in grado di governarsi da soli; anche se per molto tempo lo hanno fatto in concreto, i grandi player della rete non sono in grado di dettare le regole e non è neanche giusto che lo facciano; la palla deve tornare a chi è istituzionalmente chiamato a regolare i rapporti tra le persone.

Una vittoria per il diritto e per i giuristi. Il fatto è che i problemi sollevati non hanno risposte già pronte. Lo snodo principale è rappresentato dal rapporto tra il diritto e le tecnologie (digitali e no). Il diritto è chiamato a disciplinarle (le tecnologie), ma può anche servirsene per raggiungere il suo scopo che è quello di orientare i comportamenti delle persone per perseguire obiettivi e attuare valori fini ritenuti meritevoli da una comunità.

Riconosciuta la sua funzione imprescindibile, al diritto e ai giuristi spetta trovare gli strumenti giusti per regolare le tecnologie. E la risposta, almeno in parte, può passare dalle stesse tecnologie. Se è vero che la tecnologia minaccia è anche vero che la tecnologia può essere usata per proteggere.

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