Austriacanti, di M. Marcantoni e G. Postal

DiGiovanni Pascuzzi

12 Giugno 2019

Quello che le bandiere non dicono (recensione del libro “Austriacanti” apparsa su l’Adige del 12 giugno 2019)

In un film di qualche lustro fa (Vite sospese) la protagonista chiede: «A che cosa serve la guerra se non a tenersi strette le cose che amiamo?». Di primo acchito potremmo dire che amiamo e vogliamo tenerci strette le persone care, i nostri beni, la nostra terra, la nostra patria, dando corpo a concetti come appartenenza, fedeltà, onore. Per queste cose dovremmo essere disposti a dare la vita: e già, perché (conviene ricordarlo visto che molti paiono averlo dimenticato) la guerra è quel posto dove si può morire anche a milioni, come accaduto nella prima guerra mondiale. Ma come funziona tutto questo quando la guerra mette in discussione la stessa patria e il paradigma della appartenenza? Quando le circostanze possono far smarrire il senso dell’azione più radicale (uccidere e farsi uccidere) e, alla fine, alienare la propria stessa identità?

Domande di questo tipo sorgono leggendo il libro di Mauro Marcantoni e Giorgio Postal dal titolo «Austriacanti. Storie di persone, di guerra, di identità», Iasa edizioni, (uscito poco più di un anno fa).

Il volume ricostruisce una vicenda poco nota a chi non è nato in questa terra (ma anche, forse, a chi è nato qui in tempi recenti): quella degli italiani d’Austria che allo scoppio della prima guerra mondiale furono chiamati a combattere per l’Imperatore e che all’esito della guerra ritrovarono il paese natio in territorio italiano. Nel 1914, infatti, il Trentino faceva parte dell’Impero Austro-ungarico ma al termine del conflitto (1918) venne annesso all’allora Regno d’Italia.

La singolarità del libro sta nell’angolo di visuale scelto per ricostruire questa vicenda storica: a fondamento di tutta la narrazione c’è un numero cospicuo di lettere e, soprattutto, di diari scritti dai soldati. Gli autori hanno voluto mettere a fuoco i sentimenti degli uomini che, nel volgere di poche ore (a seguito della mobilitazione generale proclamata, il 1° agosto 1914, come risposta all’assassinio, a Sarajevo, dell’Arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria-Ungheria), furono costretti ad abbandonare le proprie attività per arruolarsi e raggiungere il teatro di guerra in Galizia, la regione più orientale dell’Impero, al confine con la Russia.

Quella che emerge è una realtà molto articolata: a cominciare dal fatto che tra i coscritti c’era chi manifestava fedeltà all’Imperatore (gli «Austriacanti», come erano sprezzantemente chiamati da alcuni) e chi già si sentiva italiano (gli Irredentisti). Ma soprattutto emergono gli interrogativi e i drammi di chi si trova proiettato negli orrori della guerra. Non stupisce, allora, che la vicenda storica ceda il passo a riflessioni più profonde fatte emergere con il linguaggio semplice (e, per questo, forse anche più incisivo) di uomini semplici che si trovano a vivere l’improvviso ingresso nella vita adulta attraverso il rito di iniziazione più spietato: la guerra, appunto.

E così a Gioacchino, Ermanno, Giovanni, Isidoro e agli altri protagonisti tocca vivere il battesimo del fuoco; accorgersi di diventare bestie perché nient’altro esiste se non l’alternativa tra uccidere o essere uccisi; vedere i propri amici morire a migliaia; chiedersi quale sia il significato di patria; misurare la distanza che esiste tra un ideale coltivato e la dura realtà; bere il calice amaro della disillusione; sperimentare il dolore di non poter vedere crescere i propri figli; interrogarsi se abbia senso continuare a combattere o cercare il modo di tornare a casa pur nella consapevolezza che dopo (la guerra) niente è più lo stesso; accorgersi che dietro il più normale dei desideri, il tornare a casa appena citato, c’è il dilemma etico che impone di scegliere tra fedeltà e tradimento (anche se non sai più a chi o a cosa dovresti rimanere fedele e chi o cosa staresti tradendo).

Ma in tutto questo sfilacciamento esistenziale i protagonisti cercano un modo per sopravvivere all’orrore (proprio la scrittura dei diari e, quindi, il ricordare, per qualcuno è il modo di salvarsi l’anima); riscoprono legami come l’amicizia e l’amore; scorgono il valore della vita in quanto tale.

Marcantoni e Postal hanno certamente voluto ricostruire un episodio importante della nostra storia. Né si lasciano scappare l’occasione per far dire a Gioacchino che «il Trentino è una terra che da sempre vuole gestirsi per conto proprio, senza imposizioni, governanti o re» (p. 145).

Ma focalizzando il libro sulle peripezie che molti dei soldati trentini sopravvissuti hanno vissuto per tornare a casa (alcuni sono rientrati in Italia nel 1920, quando il conflitto era finito da un pezzo), gli autori hanno finito per descrivere una piccola odissea. I diari dei tanti “piccoli Ulisse” che formano la base narrativa, restituiscono una riflessione sulla stupidità della guerra, sulla opportunità di guardare in modo maturo ai concetti di fedeltà e di tradimento, sulla necessità di concentrarsi sui valori più intimi dell’uomo.

In questo territorio la prima guerra mondiale ha significato scegliere tra due bandiere. Ma ci sono tante cose che le bandiere non dicono. Forse le più importanti.

 

l’Adige del 12 giugno 2019

 

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