Secondo Gustavo Zagrebelsky, viviamo in un’epoca antintellettualistica dominata dalla convinzione che l’importante è fare delle cose senza preoccuparsi se siano giuste o ragionevoli (p.12). Un’epoca nella quale gli intellettuali e i pensatori vengono guardati con diffidenza se non con disprezzo (p. 13). E invece, nell’interesse della società, avremmo bisogno di pensiero e più precisamente di libero pensiero che solo i (veri) maestri sono in grado di produrre. Date queste premesse, nel suo ultimo libro dal titolo «Mai più senza maestri» (edito da il Mulino), Zagrebelsky si impegna a dimostrare l’importanza di questi ultimi.
Il professore emerito dell’Università di Torino (ed ex giudice costituzionale) spiega (p. 137) che la nostra è una “democrazia acritica”. Essa richiede competenze tecniche: sociologi, economisti, politologi, giuristi che si mobilitano per perpetuare l’esistente. Ma costoro sono al massimo degli esperti non dei maestri. In questo tipo di società i maestri sono gli influencers sostenuti dagli esperti di marketing (p. 139). Zagrebelsky auspica invece l’approdo ad una “democrazia critica” che si ponga sempre in discussione, che sappia riconoscere i propri limiti e sappia correggere gli errori. Un tipo di democrazia, quella critica, che, invece, ha bisogno di maestri. Perché il maestro accende la curiosità ed è capace di vera innovazione in quanto il suo compito è gettare sguardi sempre nuovi in tutte le direzioni: in alto e in basso, fuori e dentro di sé (p. 152). Il maestro è un irregolare che cerca una regola; un critico, un “provocatore” che scopre connessioni nuove, unioni di tempo, di luoghi, di pensieri, di storie, di persone. Un maestro crea continuità, contiguità ma anche divisioni, rotture: non per il gusto di rompere, ma per riallacciare i fili dispersi in modo nuovo. Senza maestri si è condannati al pensiero unico e all’omologazione.
Il libro dedica ampio spazio ad approfondire i dilemmi e le incertezze del maestro: cosa significa insegnare (inculcare certezze o trasmettere conoscenza)? Occorre seguire il dogma o è necessario coltivare il dubbio? È consentito abbandonarsi al compiacimento della mera erudizione oppure si deve selezionare coraggiosamente ciò che merita di essere preservato? Quale rapporto esiste tra la mera conoscenza e la comprensione? E comprendere significa anche giustificare? (evidentemente no perché il maestro non può prescindere dalle scelte di campo). E qual è il modo di insegnare più efficace (la maieutica o l’imposizione)?
Zagrebelsky approfondisce anche le mille sfaccettature del complesso rapporto tra maestri e discepoli. Un rapporto di potere che i cattivi maestri possono riempire di contenuti nefandi se non di abusi. Un rapporto che può avere risvolti negativi da una parte (vanità e narcisismo del maestro) e dall’altra (piaggeria e servilismo degli allievi): in queste pagine si avverte forse l’influsso dell’esperienza universitaria propria dell’autore.
Il lettore troverà nel libro tanti spunti di riflessione che sarebbe velleitario pensare anche solo di riassumere. Resta una domanda di fondo: si può insegnare ad essere dei maestri? Ovvero: maestri si nasce o si diventa? Se è vero che nel maestro è facilmente individuabile l’impronta del talento è altrettanto vero che il talento deve essere plasmato ed indirizzato.
Premesso che è bene distinguere la figura del maestro da quella dell’intellettuale, del professore e del leader (perché spesso non coincidono) l’odierna scarsità di maestri è dovuta a tante cose: la tendenza a seguire l’ortodossia adagiandosi nel comodo alveo dell’omologazione; la scarsa disponibilità ad accollarsi i sacrifici connessi al battere nuove strade che spesso porta all’emarginazione e all’isolamento; l’incapacità di comprendere davvero i meccanismi della creatività malgrado la parola “innovazione” sia un mantra di questa epoca.
Ma forse la mancanza di maestri è dovuta anche a un qualche passo falso dei maestri di ieri. Se è vero che il più efficace metodo di insegnamento è l’esempio (p. 92) forse non abbiamo molti maestri perché i maestri di ieri non hanno dato gli esempi giusti, venendo meno, solo per questo, alla maggiore delle responsabilità connesse al ruolo. Inutile dire che quanto appena detto può essere una delle cause del diffuso antintellettualismo da cui eravamo partiti.