“Mutamento antropologico”. Sembra questo il punto di partenza e, al tempo stesso, l’esito di tante analisi sull’età contemporanea che spiegano come l’individualismo (e il connesso narcisismo) abbia(no) soppiantato l’idea di comunità e l’agire per il perseguimento del bene comune.

Queste analisi sono, di volta in volta, di tipo sociologico, pedagogico, politico e così via.

Nel libro “L’insostenibile bisogno di ammirazione”, edito da Laterza, Gustavo Pietropolli Charmet affronta il tema da un punto di vista diverso: quello psicoanalitico. Egli, infatti, avanza delle ipotesi “indagando i cambiamenti avvenuti nel triangolo madre, padre, figlio che è da sempre l’ambito dell’indagine psicoanalitica” (p. XI).

Charmet (psicoterapeuta) ritiene che ci sia stata una staffetta fra i sentimenti di colpa e i sentimenti di vergogna. Egli sostiene che i sentimenti di colpa hanno perduto terreno sia a livello individuale che a livello sociale nel costituire la motivazione dei comportamenti sociali. Viceversa ha conquistato un’importanza eccezionale il bisogno di notorietà, visibilità sociale, successo, ammirazione, con la conseguente paura di rimanere relegati in un cono d’ombra sociale, umiliati e mortificati, senza possibilità di riscatto se non usando la violenza, la corruzione, il reato (p. X).

All’origine di questo “passaggio” da Edipo a Narciso c’è un cambiamento radicale del modello educativo.

Fino agli anni ’50 del secolo scorso, il modello educativo si basava sulla convinzione che il bambino fosse dominato dalla propria indole pulsionale che lo avrebbe portato a trasgressioni di carattere sessuale e aggressivo. La sua natura profonda avrebbe spinto per soddisfare bisogni e desideri non compatibili con i valori e i principi etici della società. La spinta pulsionale dava vita alla dimensione del peccato e al sentimento di colpa come conseguenza della sconfitta (p. XII). Di qui l’ampia rilevanza data ai castighi come strumento per indurre al pentimento e a cambiare vita (p. XIII).

Poi avviene qualcosa. Si comincia a pensare che le regole e i limiti debbano essere posti alla cultura non alla natura. Cambia il modello educativo: il bambino è innocente, ha radicalmente ragione e ha diritto ad essere tutelato dagli attacchi della cultura alle sue pretese originarie (p. XIV e XV). Il modello educativo familiare ed il contesto sociale devono favorire la realizzazione del Sé. Ma se questa è la premessa, non stupisce che il soggetto cerchi di ottenere il massimo livello di visibilità sociale possibile (p. 43). “Il destino dell’altro non lo riguarda…. Il soggetto attuale, figlio del nuovo modello educativo e sospinto dei modelli culturali della società del narcisismo, sembra, quindi, non conoscere i morsi e rimorsi del sentimento di colpa inconscio, né il bisogno di riparare il sé o l’oggetto, ma appare proteso più verso la costruzione del proprio futuro in vista di raggiungere primo o dopo un livello compatibile di ammirazione” (p. 44). Se il progetto di crescita e socializzazione è incentrato sulla realizzazione del Sé, gli ideali che si formano progressivamente non possono essere relativi al culto dell’altro e dei suoi valori bensì riguarderanno il successo, la bellezza, l’ammirazione (p. 48).

Le conseguenze del cambio di paradigma sono significative. Ne basti citare una.

Le scelte dei bambini non sono più organizzate dalla paura dei castighi e dal sentimento di colpa. Al loro posto si sono installate due grandi motivazioni umane: la paura della vergogna e il bisogno di riconoscimento. “Essere orgogliosi di sé, del proprio corpo, della propria storia e dei propri pensieri costituisce l’obiettivo prevalente dei soggetti in fuga dalla vergogna, alla ricerca del godimento che deriva dal potersi esibire socialmente nella certezza del consenso, della benevolenza, dell’approvazione” (pag. 135).

Pietropolli Charmet scrive: “l’affievolirsi del potere del Super-Io ha consentito agli ideali dell’Io di farsi avanti senza tenere in nessun conto i valori e le regole, le ingiunzioni e le minacce provenienti dal Super-Io esausto, ormai del tutto accasciato ed incapace di arginare l’avanzata tronfia e saccente degli ideali dell’Io ormai decisi a farsi valere e a realizzare in combutta col favore dell’ambiente l’ammirazione agognata” (p. 50-51).

Nel capitolo primo (“Un illimitato bisogno di ammirazione”) si scandagliano le origini del bisogno di ammirazione. Quest’ultimo termine è usato come sintesi della ricerca dello sguardo dell’altro: sguardo individuale e sguardo sociale. Esso è soprattutto l’antidoto alla vergogna dalla quale consente di fuggire (sulla vergogna si tornerà a breve). Inutile dire che l’ammirazione non ha a che vedere con la bravura ma con il Sé profondo, e quindi con la persona che cerca in qualsiasi modo riconoscimento. Ma il Sé non ha limiti etici, e questo spiega la nascita dei fenomeni corruttivi (p. 10). L’autore indaga, in tale contesto, fenomeni come la bassa autostima, la noia, l’incapacità di comprendere la mente dell’altro, gli stalker, il cosplay (indossare i costumi di un personaggio), l’eclissi della timidezza, i selfie. Mette conto notare che, secondo l’autore, perseguire l’ammirazione è un obiettivo consentito e approvato da quasi tutti i modelli educativi. Ciò di cui lui discute è la quantità, la qualità e soprattutto i mezzi con i quali si cerca di conquistarla e l’esclusiva dedizione a questo obiettivo (p. 141-142).

Il secondo capitolo (“La vergogna tra paura e dolore”) è dedicato all’elemento che fa da contraltare all’ammirazione: la vergogna. Un tempo la vergogna era strettamente legata al pudore e a fenomeni come il desiderio di non essere visti (si pensi al bambino che si rifugia tra le gambe della mamma); la tendenza a nascondere le parti del corpo connesse con le funzioni escrementizie; il pudore sessuale (pp. 53-62). Oggi questo tipo di vergogna è scomparsa: l’esibizione del corpo non solo non viene evitata ma viene cercata se può indurre ammirazione (è il caso delle adolescenti che vanno in giro con pochi centimetri di stoffa indosso). La vergogna oggi è altra cosa. Riguarda la paura di essere brutti, non desiderabili a causa di qualche intollerabile difetto del corpo, l’angoscia di affrontare situazioni sociali caratterizzate da dinamiche competitive in cui si soffre lo scherzo molesto, la maldicenza cattiva e penetrante, lo sguardo irridente, il sottinteso e l’ammiccamento di gruppo (p. 45). “L’importanza sociale della vergogna non è dovuta alla grande sofferenza che essa innesca nella sua vittima, ma alla mole imponente di comportamenti individuali e collettivi che nascono dal proposito di evitare la vergogna, cioè di trovarsi in condizioni di grande distanza dagli ideali di bellezza, ricchezza, potere, fascino, notorietà, successo; insomma dagli ideali crudeli e pervasivi detersivi della società del narcisismo. Per una moltitudine di persone è diventato cruciale cercare di concretizzare questi modelli ideali di realizzazione sociale proprio per evitare di doversi vergognare delle sembianze proprio corpo, del contenuto del proprio portafoglio e di certe relazioni in cui si vive, insomma di tutto ciò che costituisce l’identità sociale della persona” (pag. 69). In questo contesto l’autore approfondisce fenomeni come la permalosità, il desiderio di scomparire, gli eremiti metropolitani (cosiddetti ritirati sociali o “Hikikomori”), i terroristi suicidi, il ruolo della scuola.

Il terzo capitolo è dedicato al “Corpo della vergogna”. Vengono approfonditi: il significato dei messaggi affidati alla pelle (piercing e tatuaggi); il ruolo dei genitori dei giovani che provano vergogna (nel senso prima chiarito); l’anoressia e gli “adolescenti ascetici”.

Nel quarto capitolo (“Odio e amore nell’età della vergogna”) si parla della nuova intimità di coppia, delle amicizie virtuali rese possibili dai social network, del sesso e dell’amore al tempo della rete, del cyberbullismo, delle responsabilità del sistema educativo: “L’intera società sembra non dare più importanza centrale alla responsabilità e appare molto lontana dalla sudditanza a valori e principi etici irremovibili e non reversibili. Ciò fa si che nella società del narcisismo la crisi etica generalizzata passi sotto silenzio e si ritenga che la crisi economica sia di gran lunga più importante e concreta mentre è molto verosimile che la crisi economica sia parente stretta della crisi etica e che se tutti facessero il proprio dovere la crisi economica potrebbe essere fronteggiata molto meglio e con provvedimenti da tutti rispettati. La dimensione etica è stata soppiantata dalla dimensione narcisistica ed è questo il motivo semplice per il quale la paura di non riuscire a rendersi visibili, di essere condannati a rimanere una zona buia dello spazio sociale, privo di fascino, bellezza e potere sembra essere di gran lunga il timore più diffuso, da cui derivano sia l’incubo di doversi vergognare del corpo, del lavoro, della condizione economica, sia la ricorsa verso comportamenti in grado di evitare l’umiliazione e la mortificazione” (p. 140).

Nell’ultimo capitolo dedicato alle conclusioni, l’autore suggerisce alcune ricette: a) il recupero della figura del padre intesa come riscoperta del valore e del senso del limite; b) la necessità di restituire autorevolezza alla scuola.

 

Il libro di Gustavo Pietropolli Charmet è molto interessante.

Esso offre una chiave di lettura unitaria che consente di capire un’ampia serie di fenomeni che caratterizzano la società contemporanea: dall’individualismo sfrenato al desiderio di apparire; dalla perdita di contenuto delle relazioni sociali al disinteresse per il bene comune; dalla spasmodica ricerca dell’affermazione del Sé ai tanti soggetti che per diverse ragioni vivono ai margini pur meditando sentimenti di rabbia e desiderio di rivincita.

In estrema sintesi ci fa capire che abbiamo assistito ad un cambiamento epocale: ogni persona è alla disperata ricerca dell’affermazione del Sé. L’altro e la comunità degli altri semplicemente non esistono nell’orizzonte del singolo alla ricerca dell’autoaffermazione se non come strumento per raggiungerla (in fondo lo sguardo dell’altro -la sua ammirazione- è cercato proprio come dimostrazione dell’avvenuta affermazione). Questo innesca dinamiche molto competitive che sono le uniche in grado di assicurare il raggiungimento degli ideali di ricchezza, bellezza, ascesa sociale che solo contano. Il fatto è che la stragrande maggioranza delle persone non è in grado di sostenere quel tipo di dinamiche. E allora scattano alcune conseguenze: o si cercano “scorciatoie” per raggiungere obiettivi che si scopre non essere a portata di mano (es.: violenza e corruzione per affermare la propria legittimazione ad esistere); oppure si viene risucchiati nella dolorosa spirale della vergogna, che non è più quella di un tempo, ma la semplice constatazione di non essere in grado di raggiungere gli ideali della società narcisistica, lo scoprire di non essere all’altezza. La ricerca di ammirazione altro non è che la fuga dal dolore della vergogna di non essere belli, ricchi, e così via. Il tutto consumato in una solitudine cosmica. Non si cerca di cambiare il modello, di accreditare nuovi valori: si accettano le regole del gioco e si beve fino in fondo il calice amaro delle conseguenze che esso comporta.

Il punto di partenza è la dimensione educativa. E’ cambiato il modo di pensare delle persone e questo è avvenuto perché da un certo momento in poi è cambiato il modello educativo: nelle famiglie e nella scuola.

Sarebbe interessate capire se questo mutamento epocale è sorto spontaneamente ovvero se è a sua volta frutto di qualcos’altro: ad esempio le dinamiche di mercato.

Secondo l’autore buona parte di questi problemi nasce dalla “evaporazione della figura del padre” o dalla rottamazione del patriarcato (pp. 8-9 e passim).

In ogni caso qualcosa occorre fare perché (anche senza leggere il libro) ciò che abbiamo intorno a noi sono masse crescenti di persone infelici che vivono sulla propria pelle l’incapacità di reggere il modello imposto.

La dimensione educativa se è l’origine del problema è anche la base della sua possibile soluzione. A patto di saper individuare la rotta giusta per restituire autorevolezza alla scuola.

 

l’Adige 18 agosto 2019

 

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