L’innovazione didattica sembra essere diventata una necessità ineludibile dei processi formativi. Viene citata in tutti i manifesti politici dei vari partiti al capitolo “scuola”, e viene invocata a gran voce anche dagli studenti. A testimonianza dell’indiscusso successo della locuzione si può ricordare che a livello ministeriale esiste una Direzione generale che si occupa di innovazione didattica (d.p.c.m. n. 47/2019, art. 5) e che a livello provinciale la capacità di innovare la didattica è uno dei parametri alla cui stregua viene valutato il merito degli insegnanti (art. 87-bis della legge provinciale sulla scuola n. 5/2006, modificata nel 2016).

Ma di cosa parliamo quando parliamo di innovazione didattica? Ad un esame più approfondito, infatti, ci si accorge che tale espressione viene adoperata con significati differenti. Proviamo a redigere un piccolo inventario (chiedendo indulgenza per le inevitabili semplificazioni dovute al limitato spazio disponibile).

  1.  Il “cosa”. C’è chi invoca l’innovazione a proposito di cosa debba formare oggetto di insegnamento. Un tempo si dava per scontato che la scuola (come l’Università) dovesse trasmettere i saperi disciplinari (matematica, fisica, storia, diritto, e così via). Di recente i programmi mettono l’accento sulla opportunità di far apprendere pure le cosiddette “soft skills” e più in generale le “competenze”. Le agenzie formative ci dicono che i processi formativi devono mirare a far apprendere non solo il sapere ma anche il saper fare e il saper essere.
  2.  Il “come”. Di innovazione si parla, da un altro punto di vista, rispetto alle modalità ritenute idonee a far conseguire gli obiettivi di apprendimento programmati. Un tempo la “lezione frontale” era la strategia didattica per antonomasia. Oggi, oltre alle potenzialità offerte dalle tecnologie informatiche (si pensi alla didattica a distanza o agli ambienti di apprendimento virtuali), sempre più si fa ricorso a strategie come: lo studio di casi, la simulazione, i giochi di ruolo, la didattica a base di problemi; e così via.
  3.  La “verifica”. L’ansia di innovazione investe anche le modalità usate per testare il grado di apprendimento raggiunto. Il modello tradizionale contemplava il famoso “esame” che poteva (e può) essere scritto e/o orale. Oggi la batteria di strumenti a disposizione è molto più ampia: si pensi, solo per fare un esempio, al “portfolio delle competenze”. In ogni caso diffusa è la consapevolezza che le modalità di verifica devono cambiare in funzione del tipo di sapere che si vuole valutare.
  4.  Gli “ausili”. Qualcuno è poi convinto che l’innovazione didattica passi dall’abbandono dei vecchi libri di testo (dal sussidiario in su). Si vuole in questo modo enfatizzare l’acquisizione della capacità di costruire da soli i contenuti da studiare: nascono così i libri di testo autoprodotti nelle singole scuole e simili.
  5.  Il “chi”. Infine, il “mantra” innovazione investe anche il ruolo di chi insegna. Chi deve essere oggi l’insegnante? Un indottrinatore che impone di mandare a memoria verità preconfezionate? Un istruttore che spiega i passaggi per risolvere i problemi (così come si può spiegare come si cambia una gomma forata)? Un orientatore che aiuta a trovare la propria strada nella vastità dei saperi? Qualcuno che deve limitarsi ad insegnare come si impara?

Alla luce di quanto appena esposto possiamo concludere che quando si parla di “innovazione didattica” in realtà si fa riferimento a tante cose e un po’ a tutti gli “ingredienti” di un processo formativo. Non c’è nulla di male in questa “polisemia”, purché se ne sia consapevoli e si tengano nel debito conto le ricadute di ognuna delle possibili innovazioni. Lo snodo veramente importante è quello della visione d’insieme.

L’innovazione non è un valore ma un dato di fatto: c’è innovazione quando cambia qualcosa. Non è né buona né cattiva per definizione specialmente in un campo, come quello formativo, dove è ben difficile capire se, ad esempio, una diversa didattica produca risultati migliori (se ho studiato una lingua straniera per cinque anni in un certo modo, non posso riavvolgere il nastro della mia vita per vedere se l’avrei appresa meglio usando un metodo diverso). Di regola si vuole cambiare per migliorare, ma l’esito può essere anche peggiorativo. E ci sono delle gradazione del mutamento: si può correggere qualcosa; oppure si può stravolgere tutto sino a giungere allo sostituzione di qualcosa con qualcos’altro. Si possono “fare cose” totalmente nuove; o si possono “fare cose vecchie” in modo nuovo.

Alcuni punti fermi, però, restano. Al centro del processo formativo c’è il soggetto che apprende. Ma la “scena” è sempre costruita da chi insegna a cui spetta il compito di definire esattamente gli ingredienti del processo formativo ed assicurare che ogni possibile innovazione risponda ad una logica complessiva e persegua, almeno nelle intenzioni, un reale miglioramento.

l’Adige 25 settembre 2019

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