La mattina dopo, di Mario Calabresi

Esiste un potere terapeutico del riordino? Si può provare a guarire i mali dell’anima facendo ordine nei cassetti, negli armadi e, soprattutto, dentro di sé e intorno a sé? (p. 56).

Per Mario Calabresi la risposta è si: lo si comprende leggendo il suo ultimo libro “La mattina dopo” che ha scritto quando ha smesso di fare la cosa che pensava avrebbe fatto per sempre: il Direttore del quotidiano “La Repubblica” (pagg. 5-7).

Il volume racconta le storie di persone che cadono all’improvviso, ritrovandosi a terra e scoprendo di aver perso qualcosa per sempre (p. 9). Calabresi ricorda che ci sono “mattine dopo” attese, come quelle che vivono le persone che vanno in pensione e devono misurarsi con la dimensione del “vuoto”. E ci sono “mattine dopo” inimmaginabili: accade per gli incidenti, per le morti improvvise, quando l’equilibrio della propria vita viene sconvolto senza preavviso (p. 11). E sono quelle mattine in cui o provi a difenderti e a proteggerti oppure cominci a “naufragare”.

In realtà Calabresi crede anche in un altro potere terapeutico: quello del racconto, della scrittura. Egli, infatti, pone ordine e lo fa mettendo per iscritto le esperienze vissute da altri ma anche quella personale.

Il valore terapeutico della scrittura emergeva ugualmente nel primo libro di Calabresi che ha avuto successo presso il grande pubblico. Si chiamava “Spingendo la notte più in là” (Mondadori 2007). In esso l’autore raccontava come aveva vissuto, da bambino, l’assassinio di suo padre. Ci sono molti elementi che uniscono i due libri. Ad esempio la metafora del “naufragio” prima richiamata. Quel libro, infatti, era un esempio di recupero faticoso della memoria. In particolare (per usare le sue parole) quella di un “naufrago” intento a “setacciare la spiaggia in cerca di oggetti personali dopo una tempesta, un uragano, chino a riconoscere cosa ancora gli appartiene”. Quel libro narrava la storia di una mamma eccezionale “che come antidoto alla depressione si è data da fare tutti i giorni cercando di vaccinare i figli dall’accidia, dall’odio, dalla condanna ad essere vittime rabbiose” e la storia di un figlio che è riuscito nell’impresa più difficile: canalizzare la rabbia in positivo verso obiettivi costruttivi. Con un debito grande di riconoscenza verso un ‘Pittore di sinistra’, Tonino Milite, che ha svolto il ruolo di compagno e di padre “inventando metodi grandiosi per combattere le tristezze” dei piccoli Paolo, Luigi e Mario: il ‘Pittore di sinistra’ è l’autore dei versi che davano il titolo al libro (“Spingendo la notte più in là”).

In questo nuovo libro Calabresi “mette ordine” ricordando (insieme ad altre storie) l’evoluzione della storia di quelle persone. Tonino Milite, il suo padre adottivo, è deceduto nel 2015 e ci sono voluti 3 anni per riaprire il suo studio rimasto chiuso dopo l’evento (p. 43 ss.) e la mamma di Mario, moglie di Tonino, in quella occasione ebbe il crollo emotivo che non aveva avuto quando, a 25 anni, aveva perso il suo primo marito (il Commissario Luigi Calabresi, appunto). Ma poi si è ripresa da quell’evento e da una brutta caduta che l’aveva portata in terapia intensiva. Ripete spesso: “Nella vita c’è un unico segreto. Bisogna vedere la bottiglia mezza piena, perché la vita è fatta di cose belle e di dolori; e di dolori ne abbiamo avuti tanti, ma se ci fossimo fermati lì sarebbe davvero finita” (p. 55). Ammiro una donna così.

Non si può cambiare ciò che è successo, bisogna farci pace (p. 59).

Il legame tra i due volumi emerge anche sotto un altro profilo. L’ultima storia di “riordino” raccontata nel nuovo libro ha a che fare con la vita di Mario Calabresi e con la morte di suo padre. Scoprirà il lettore di cosa si tratta. Ma questa storia si chiude con la frase che chiude il libro: “Adesso il mio giorno dopo era finito davvero”. Un giorno dopo durato 47 anni.

Il potere del riordino (se davvero esiste) può avere tempi molto lunghi. E forse lenisce più che guarire davvero.

Leggendo il libro si è riaffacciata una convinzione che ho da sempre. Usiamo una parola, la parola “dolore” sia per il dolore fisico che per il dolore dell’anima. Sono due cose molto diverse. Dovremmo usare due parole diverse.

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