Nella classifica Forbes dei 100 brand più ricchi al mondo, Google e Facebook appaiono rispettivamente al secondo e al quinto posto. Ma come è possibile che valgano tanto i brand di aziende che offrono servizi (motore di ricerca e social network) per usufruire dei quali non ci viene chiesto nessun pagamento?

E’ utile approfondire il discorso.

A) Niente è gratis. Innanzitutto conviene ricordare che noi paghiamo i servizi citati, anche se non in moneta. Nelle condizioni di utilizzo di Facebook (sottoscritte nel momento in cui ci si iscrive al social network) si legge testualmente: “Anziché pagare per l’uso di Facebook, l’utente accetta che Facebook possa mostrare inserzioni, la cui promozione avviene dietro pagamento da parte di aziende e organizzazioni. Facebook usa i dati personali dell’utente (ad es., informazioni su attività e interessi) per mostrargli le inserzioni più pertinenti”. Non diverso il discorso per Google le cui condizioni di utilizzo recitano: “Utilizziamo le informazioni raccolte per creare servizi su misura per te, ad esempio offrendoti consigli, contenuti personalizzati e risultati di ricerca personalizzati. Potremmo mostrarti annunci personalizzati in base ai tuoi interessi. Ad esempio, se cerchi “mountain bike”, potresti vedere un annuncio per attrezzatura sportiva quando ti trovi su un sito che mostra annunci pubblicati da Google”. Il corrispettivo per l’uso di queste piattaforme sono i nostri dati, i nostri interessi: essi hanno valore economico.

B) La pubblicità comportamentale. Si definisce in questo modo una pratica basata sull’attività da parte di un utente tramite la navigazione su vari siti web che permette ai pubblicitari di personalizzare il contenuto della pubblicità in base agli interessi degli utenti.

C) La profilazione. L’obiettivo di questi giganti della rete è farci vedere una pubblicità mirata, basata sui comportamenti che teniamo sulla rete. Per fare questo occorre “profilare” ogni singolo utente. Questo si ottiene dalla mole enorme di “tracce” che lasciamo: dispositivo usato, transazioni effettuate, “like” elargiti, navigazione da un sito all’altro, tempo di permanenza su una pagina e chi più ne ha più ne metta.

D) Come si crea un profilo. Ma come è possibile, mettendo insieme migliaia di elementi come quelli descritti, farsi un’idea attendibile di una persona? Gli esperti dicono che sia possibile. Ad esempio il Centro di psicometria dell’Università di Cambridge mette a disposizione online un applicativo che definisce il profilo psico-demografico di ciascuno ricavandolo dalle tracce digitali del proprio comportamento: rivela come si può essere percepiti dagli altri online e fornisce approfondimenti sulla personalità, intelligenza, leadership, soddisfazione della vita e altro ancora. Per ottenere ciò basta collegarsi al sito del Centro (https://applymagicsauce.com/demo), caricare i dati lasciati su Facebook e Google (entrambi i giganti consentono agli utenti di ottenere in un unico file tutti i dati che possiedono su ciascuno), e di lì a poco sul sito si può leggere il proprio profilo.

E) Non solo pubblicità. Ma il profilo psicologico coincide solo in parte con il profilo che consente di capire se vogliamo comprare una bicicletta o un libro. E soprattutto la profilazione può non servire solo alla pubblicità. La prova si è avuta in un caso diventato famoso. Cambridge Analytica (CA) era una società che operava nel campo della “data science”. Essa si vantava di aver ridefinito il rapporto tra i dati e le campagne elettorali: conoscendo meglio gli elettori si può avere maggiore influenza su di essi riducendo i costi. Il motto di CA era: “Noi troviamo i tuoi elettori e li induciamo ad agire“. CA creava (a partire da milioni di dati acquisiti prevalentemente da Facebook) dei “profili psicografici” nei quali non solo identificava quali elettori probabilmente si sarebbero mossi a vantaggio di un certo candidato, ma usava le informazioni per predire ed anche modificare il loro comportamento futuro. Dalla pubblicità alla manipolazione, quindi. CA è stata accusata di aver interferito pesantemente in alcune campagne elettorali, tra cui quella che ha portato alla elezione di Trump, che di CA era cliente.

F) L’attendibilità dei profili. Ma davvero si può capire da un “like” l’orientamento politico di una persona e fare in modo di farla votare per un certo candidato e non per un altro? Nel 2018 un cittadino chiese a Cambridge Analytica di conoscere i dati che aveva su di lui. Scoprì che lo avevano profilato come elettore democratico e che era più interessato al debito pubblico che al diritto di portare armi; più ai valori tradizionali che alla tutela della salute, e così via. Egli non riusciva a capacitarsi di come fosse stato possibile risalire a questi orientamenti dai suoi “like”. Soprattutto egli non si riconosceva affatto nel profilo che era stato fatto di lui. Non sapremo mai come sarebbe andata a finire perché Cambridge Analtyca ha dichiarato bancarotta.

G) Danno da errata profilazione. Il pericolo non è solo quello che su di noi vengano raccolti tantissimi dati sulla base di ciò che facciamo su Facebook, su Google e sulla rete in genere. Il rischio è che qualcuno, a nostra insaputa, si faccia una idea sbagliata di noi e che questo possa essere fonte di danno.

I) Che fare? La legge consente di sapere quali dati vengono raccolti su di noi. Ci riconosce anche il diritto di rifiutare di essere sottoposti a trattamenti totalmente automatizzati come sono, appunto, le profilazioni. Ma molto possiamo fare noi stessi. Limitando i dati che disseminiamo sulla rete (anche ricorrendo a tutele tecnologiche come la navigazione anonima). E diffidando dei servizi totalmente gratuiti, che gratuiti non sono affatto.

l’Adige 16 novembre 2019

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