Il 5 giugno 2019, questo giornale ha pubblicato un editoriale di Mauro Marcantoni dal titolo: “Il Trentino rischia di affondare”. L’autore sosteneva che l’autonomia trentina è fragile a causa di quattro ben precise zone critiche. Esse sono:
a) il deficit dei bilanci provinciali (la spesa è maggiore del gettito fiscale);
b) la sostenibilità finanziaria del sistema autonomistico (anche il Trentino è “a carico” della fiscalità generale, almeno in parte);
c) lo scarso riconoscimento della capacità di autogoverno dei trentini da parte dei connazionali;
d) la debolezza dello spirito di appartenenza e dell’attitudine ad assumersi responsabilità collettive (si è affievolita tra le persone la consapevolezza delle ragioni che hanno giustificato, e che possono ancora giustificare l’autonomia speciale del Trentino).
Dopo averlo letto, avevo pensato che l’articolo avrebbe innescato un ampio e vivace dibattito pubblico: invece non è successo nulla.
Il tema è però tornato di attualità a metà dicembre in occasione della approvazione della manovra di bilancio 2020, che certo non si può dire “espansiva” essendo stata, viceversa, caratterizzata da “tagli” significativi per far fronte alla riduzione del bilancio provinciale. In particolare della problematica si trova eco in due ordini del giorno presentati dalle minoranze e approvati dal Consiglio provinciale (nn. 137 e 138). Partendo dalle preoccupazioni innescate dal basso tasso di crescita e dalla riduzione delle disponibilità finanziarie della Provincia (circa 370 milioni in meno nel 2022 rispetto al 2019), i due documenti propongono da un lato di prevedere concreti obiettivi di crescita quantitativa e qualitativa così da avvicinare il Trentino agli standard europei; dall’altro di rivedere i rapporti finanziari con lo Stato anche al fine di vedersi riconoscere una competenza integrale in materia tributaria così da garantirsi piena autonomia nella definizione delle entrate.
Una riprova dell’importanza dell’argomento si sta avendo in questi giorni: il cosiddetto “nuovo bonus Renzi” è suscettibile di tradursi in una ulteriore consistente riduzione del bilancio provinciale.
Il tema è di vitale importanza per questo territorio e dovrebbe essere oggetto di attenta riflessione e di studi specifici. A mio avviso sono almeno tre i profili da affrontare.
1) Le soglie. Occorre innanzitutto definire che cosa una comunità di circa 540.000 abitanti può permettersi. Più specificamente bisogna fissare la soglia minima di PIL (e di entrate del bilancio provinciale) che occorre raggiungere per poter finanziare, a livelli qualitativi europei (ma anche solo accettabili), le spese in materia di sanità, istruzione, finanza locale e quelle per tutte le altre competenze che si sono accumulate nel tempo (università, giustizia, etc.). Meglio sarebbe stabilire diverse soglie: con un tot di PIL ci si può permettere questo. Se il PIL (e, con esso il bilancio provinciale) aumenta ci si può permettere anche questo. E così via. Sarebbe importante avere disponibili questo tipo di dati, molto concreti, così da non procedere a vista finendo per mettere in competizione le diverse spese semplicemente perché non le si può sostenere tutte ad un livello accettabile: la conseguenza, di regola, è uno scadimento generalizzato della qualità (cosa che, ahinoi, un po’ sta avvenendo).
2) Gli atteggiamenti. Nell’articolo citato all’inizio, Marcantoni elencava tra le criticità anche il modo nel quale ci vedono gli altri. Dieci anni fa, esattamente il 5 marzo 2010, il “Venerdì” di Repubblica, nel dare notizia della cosiddetta provincializzazione dell’Università, pubblicò un articolo che aveva questo titolo: “A Trento la Provincia fa l’americana e compra l’ateneo con tutti i professori”. Ovviamente le cose non stavano così. Ma questa era l’immagine che veniva data: una Provincia piena di soldi che “si compra” cose e persone. Non è, però, importante interrogarci solo su come ci vedono, quanto capire cosa siamo davvero e quali sono gli atteggiamenti che i decisori politici dovrebbero tenere. Venendo ai giorni nostri: il Trentino reale è quello che deve far fronte a tagli per decine di milioni nel finanziamento della Sanità? O è quello che per sopperire alla carenza di una sessantina di medici “si compra” una facoltà di medicina (ricordando, in questo modo, il tizio che quando ha voglia di un caffè, anziché andare al bar per ordinarne una tazzina, acquista un’industria di torrefazione)?
3) I contenuti. Se guardiamo alla storia degli ultimi decenni, si può affermare che la richiesta di nuove competenze sembra essere diventato un riflesso condizionato. Ogni volta che si presenta un problema di qualsiasi tipo c’è chi sostiene che lo stesso si risolverebbe chiedendo allo Stato la delega sulla materia relativa. Il paradigma pavloviano dello stimolo-risposta (ovvero: problema-competenza) si ripete senza che su di esso si sviluppi una reale riflessione razionale. Non ci si chiede, ad esempio, se maggiori competenze siano compatibili con la contrazione dei bilanci provinciali: si dà per scontato che si possano fare più cose con meno risorse. Assente, il più delle volte, è anche l’approfondimento dei reali ambiti di manovra che una delega può dare alla Provincia. A volte lo Stato mette dei paletti talmente stringenti, al fine di salvaguardare l’uniformità di regolamentazione in tutto il territorio nazionale, da ridurre la Provincia a mero “ufficiale pagatore”: si esborsano risorse per un servizio ma le condizioni di erogazione vengono decise da altri (è il caso, ad esempio, della delega sull’Università). Situazione di cui si comprende la frustrazione ma non l’utilità. Occorre rimeditare tale strategia e mantenere solo le competenze sostenibili e che possano dare vita ad una tangibile diversificazione dal contesto normativo statale così da dare reale senso all’autonomia.
Come questo giornale titolò molti mesi fa “Il Trentino rischia di affondare”. Il problema dovrebbe essere affrontato con urgenza e in tutte le sue sfaccettature.
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