Lo scorso 23 dicembre alla Camera è stata presentata una proposta di riforma costituzionale (la numero 2321) che mira ad introdurre nella nostra Carta fondamentale il riconoscimento del diritto alla felicità.

In particolare, si vorrebbe inserire un nuovo inciso nel secondo comma dell’articolo 3 che reciterebbe così: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno godimento del diritto alla felicità, lo sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Il tema non è nuovo. Già la Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti (1776) menziona questo diritto: «Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità».

Ma cos’è la felicità? E’ difficile dare una risposta a questa domanda anche perché la letteratura sull’argomento, da Epicuro in poi, è praticamente sterminata. Possiamo solo mettere insieme qualche spunto di riflessione.

Chi invoca un “diritto” alla felicità fa già una scelta di campo. Vantare un diritto significa possedere una posizione attiva e di vantaggio cui corrisponde una posizione di soggezione e di obbligo. Senza indulgere in tecnicismi, questo significa che se ho un diritto ad essere felice ci deve essere qualcuno che è obbligato a rendermi felice. In questa prospettiva si può pensare alla felicità come ad uno degli ingredienti del welfare o del cosiddetto “stato sociale”: il diritto alla felicità sarebbe qualcosa che si assomma al diritto alla casa, al diritto alla pensione e così via.

A ben vedere tale prospettiva è quella fatta propria dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite quando, con una Risoluzione del 12 luglio 2012 (n. A/RES/66/281), ha istituito la Giornata mondiale della felicità da celebrarsi il 20 marzo di ogni anno. Nel documento, dopo aver chiarito che la ricerca della felicità è uno scopo fondamentale dell’umanità, si sottolinea che è molto importante riconoscere tanto la rilevanza della felicità e del benessere negli obiettivi delle politiche pubbliche; quanto la necessità di un approccio più inclusivo, equo, e bilanciato alla crescita economica che promuova uno sviluppo sostenibile, l’eradicazione della povertà e, appunto, la felicità e il benessere di ogni persona.

Le Nazioni Unite sembrano voler ricollegare la felicità alla dimensione economica, ad una maggiore giustizia sociale, ad un certo tipo di progresso. Ed individuano nelle politiche pubbliche, poste in essere dagli Stati o dai regolatori pubblici, lo strumento da impiegare per raggiungere questo obiettivo. La felicità intesa come qualcosa di concreto che tutti (individualmente e collettivamente) devono potersi permettere, compreso i meno abbienti che, uscendo dallo stato di bisogno, automaticamente potrebbero iscriversi nella categoria dei “felici”.

Una concezione della felicità per molti versi riconducibile al paradigma della “famiglia del Mulino Bianco”. Una felicità che si trova nei reparti di un supermercato e che può essere misurata con un semplice questionario sulla “customer satisfaction”, somministrato al solo fine di migliorare il servizio, ovvero per rendere ancora più felici i consumatori.

In realtà bisognerebbe evitare di confondere la felicità con altre sensazioni che con essa possono essere confuse. La felicità, ad esempio, è cosa diversa dall’appagamento che proviamo quando raggiungiamo un certo obiettivo; ed è differente anche dalla serenità che ci fornisce l’agiatezza o l’avere intorno una famiglia in piena salute.

Se si riduce il contenuto alla dimensione economica addirittura azionabile sul piano giuridico stiamo parlando di qualcosa di molto importante ma che non coincide con la felicità.

Quest’ultima è per definizione uno stato transitorio ed episodico: si pensi al momento in cui scopriamo che il nostro sentimento amoroso è corrisposto e ricambiato. Non è possibile essere felici per sempre e in ogni momento della giornata: quella è la situazione del beota. Assaporiamo la felicità proprio perché ne siamo distanti per larga parte del nostro tempo. La felicità è aspirazione, anelito, desiderio, sogno. Essa è tanto più grande quanto maggiore è l’insoddisfazione che la precede. Il perpetuarsi dello stato di soddisfazione e appagamento ci allontana dalla felicità. Perché nella natura dell’uomo non c’è la stasi ma la ricerca. Se così è, anziché introdurre il diritto alla felicità, occorrerebbe prevedere l’obbligo all’inquietudine: per sperare, a volte, quando meno te lo aspetti, di assaporare la felicità.

l’Adige 26 febbraio 2020

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