Progettare l’Innovazione Didattica è il titolo di:
a) un corso gratuito a distanza (per la precisione un MOOC: Massive Open Online Courses) erogato dal Politecnico di Milano (identificativo: Education – PID101);
b) un libro edito da Pearson.
L’autrice è Susanna Sancassani, responsabile di METID (Metodi e tecnologie innovative per la didattica) al Politecnico di Milano, unitamente a Federica Brambilla, Daniela Casiraghi e Paolo Marenghi[i].
Ho trovato interessante tanto seguire il corso a distanza quanto leggere il libro (che del primo è uno “specchio” complementare).
Di seguito, dopo aver brevemente illustrato i contenuti del corso, proverò a scrivere qualche considerazione.
Preciso che il corso può essere seguito anche da chi non è né professore né studente del Politecnico meneghino. È sufficiente attivare un account collegandosi al sito.
I contenuti del corso e del libro.
La prima settimana (delle sei complessive) è dedicata a comprendere perché dovremmo innovare la didattica universitaria. Il focus è sul concetto di innovazione didattica (che non coincide affatto, come i più tendono a pensare, con l’introduzione delle tecnologie digitali nell’insegnamento) e sulle ragioni che dovrebbero spingere ad abbandonare il paradigma del “docente oratore” (che si preoccupa solo di esporre bene dei contenuti preselezionati) per passare a quello del “docente designer” dell’esperienza didattica (che è un vero “regista” di tutto ciò che ruota intorno ad un processo di apprendimento che metta al centro chi impara: contenuti, attività, strumenti, canali). Per gli autori, fare innovazione didattica significa passare dalla didattica tradizionale, basata su un approccio di tipo frontale e trasmissivo, ad una didattica che ponga al centro del processo di insegnamento lo studente stimolandone le dimensioni attive, creative e collaborative. L’innovazione didattica è un processo che parte dalla individuazione degli obiettivi di apprendimento attesi e si propone di migliorare tanto i risultati dell’apprendimento quando l’esperienza di apprendimento.
Nella seconda settimana viene approfondito proprio il punto di partenza dell’innovazione, ovvero il tema dei cosiddetti Risultati di Apprendimento Attesi (RAA). In particolare:
– si introduce il concetto di “Constructive Alignment” elaborato da John Biggs[ii];
– si spiega perché è utile una formulazione esplicita ed accurata dei Risultati di Apprendimento Attesi e perché i RAA possono agevolare la progettazione didattica;
– si suggerisce di utilizzare le categorizzazioni di Bloom e i descrittori di Dublino per meglio individuare i RAA[iii].
L’approccio del Constructive Alignment proposto da J.B. Biggs si sostanzia in tre tappe fondamentali. Se si vuole progettare l’innovazione didattica:
– occorre innanzitutto formulare i Risultati di Apprendimento Attesi;
– immediatamente dopo va progettata una Strategia di Valutazione che permetta (in corso d’opera e alla fine) di valutare i Risultati di Apprendimento Attesi;
– e solo in un terzo momento vanno immaginate tutte le attività di insegnamento-apprendimento che permettano agli studenti di raggiungere i Risultati di Apprendimento Attesi e di affrontare con successo le attività di valutazione previste.
Conviene ricordare che spesso nella costruzione dei syllabus dei corsi ci viene chiesto di indicare i cosiddetti “obiettivi formativi”. I risultati di apprendimento sono un altro modo di guardare (più o meno) alla stessa cosa. Si può dire che l’obiettivo mette in esponente il punto di vista del docente, il risultato enfatizza ciò che lo studente realmente raggiuge in termini di risultato. Mette conto notare, in ogni caso, che la legislazione vigente attinge alla nozione di “obiettivo fomativo” cfr., in particolare il d.m. 270/2004 secondo il quale i corsi di studio devono avere degli “obiettivi formativi qualificanti” (art. 4, comma 1) intendendosi per essi “l’insieme di conoscenze e abilità che caratterizzano il profilo culturale e professionale, al conseguimento delle quali il corso di studio è finalizzato” (art. 1, comma 1, lett. m).
Nella terza settimana viene approfondito il tema della valutazione degli apprendimenti. A tal fine si traccia la distinzione tra valutazione formativa (quella che avviene durante il processo formativo) e valutazione sommativa (quello che un tempo era l’esame finale). Si spiega come costruire le cosiddette “rubriche analitiche di valutazione” e si illustrano i principi base della valutazione: i diversi tipi di test (che possono e devono variare in funzione del risultato di apprendimento che si vuole verificare), i criteri e gli indicatori, il feedback[iv]. Importante è il coinvolgimento degli studenti nella valutazione.
Nella quarta settimana vengono approfonditi i “modelli pedagogici”. Ogni attività formativa riposa (o dovrebbe riposare) sulle delle premesse teoriche ovvero su teorie pedagogiche. Nel corso del tempo si sono succedute varie teorie (es.: costruttivismo, cognitivismo, gestalt, etc.)[v]. Ognuna di esse suggerisce di adottare un particolare tipo di approccio nell’insegnamento. I modelli pedagogici sono la concretizzazione in termini di pratica didattica e, quindi, di linee guida operative, dei principi generali che sono ispirati dalle grandi teorie pedagogiche. Vengono quindi approfonditi i seguenti modelli pedagogici:
– Gagné e gli eventi educativi;
– l’Inquiry based learning;
– il Problem based learning[vi];
– il Ciclo di Kolb;
– il Social learning;
– il Networked learning;
– la Flipped classroom[vii].
La quinta e la sesta settimana sono dedicate ad illustrare la “Rete dell’Apprendimento”, uno strumento di progettazione didattica sviluppato dallo stesso METID del Politecnico di Milano. In tale contesto una particolare attenzione è dedicata anche alla valutazione quantitativa e qualitativa dei processi di innovazione didattica.
Rapidi appunti.
Se parlo di questo corso e del libro collegato è perché, come ho detto, ho trovato molto interessante seguire il primo e leggere il secondo.
L’emergenza Covid ha imposto una innovazione forzata, quella della didattica a distanza. Ma di innovazione didattica (che non è solo innovazione tecnologica, anzi), si parla da ben prima del febbraio 2020. Ed infatti corso e libro erano stati confezionati in precedenza con l’obiettivo di spiegare come e perché si può (e forse si deve) fare innovazione didattica.
L’innovazione didattica viene richiesta a gran voce anche dagli studenti. Come esempio si riproducono di seguito alcuni passaggi del 1° rapporto annuale sullo stato e la qualità dell’attività didattica in Ateneo, redatto dal consiglio degli studenti dell’Università di Trento, dal titolo «D come didattica» (aprile 2018)[viii]:
«riteniamo che attività come presentazioni in aula da parte degli studenti, lavori di gruppo, discussioni e dibattiti tra studenti e docenti, attività pratiche o di problem solving siano essenziali per una didattica che miri ad essere innovativa e d’avanguardia…. L’utilizzo di metodologie di insegnamento tradizionali si riflette anche sulle modalità di esame… Anche su questo aspetto è quindi necessario un miglioramento utilizzando metodi di valutazione alternativi alle classiche prove scritte o orali, che indaghino e mettano alla prova anche capacità diverse e varie dello studente come, per esempio, la capacità di lavorare in gruppo, la capacità di progettazione o la capacità di esposizione davanti alla classe».
Non da oggi, quindi, e certo non a causa della pandemia, l’innovazione didattica era ed è considerata una necessità ineludibile dei processi formativi.
Ma di cosa parliamo quando parliamo di innovazione didattica? Ad un esame più approfondito, infatti, ci si accorge che tale espressione viene adoperata con significati differenti. Proviamo a redigere un piccolo inventario (chiedendo indulgenza per le inevitabili semplificazioni dovute al limitato spazio disponibile).
A) Il «cosa». C’è chi invoca l’innovazione a proposito di cosa debba formare oggetto di insegnamento. Un tempo si dava per scontato che l’Università dovesse trasmettere i saperi disciplinari (matematica, fisica, storia, diritto, e così via). Di recente i programmi mettono l’accento sulla opportunità di far apprendere pure le cosiddette «soft skills» e più in generale le «competenze». Le agenzie formative ci dicono che i processi formativi devono mirare a far apprendere non solo il sapere ma anche il saper fare e il saper essere[ix].
B) Il «come». Di innovazione si parla, da un altro punto di vista, rispetto alle modalità ritenute idonee a far conseguire gli obiettivi di apprendimento programmati. Un tempo la «lezione frontale» era la strategia didattica per antonomasia. Oggi, oltre alle potenzialità offerte dalle tecnologie informatiche (si pensi alla didattica a distanza o agli ambienti di apprendimento virtuali), sempre più si fa ricorso a strategie come: lo studio di casi, la simulazione, i giochi di ruolo, la didattica a base di problemi; e così via[x].
C) La «verifica». L’ansia di innovazione investe anche le modalità usate per testare il grado di apprendimento raggiunto. Il modello tradizionale contemplava il famoso «esame» che poteva (e può) essere scritto e/o orale. Oggi la batteria di strumenti a disposizione è molto più ampia: si pensi, solo per fare un esempio, al «portfolio delle competenze». In ogni caso diffusa è la consapevolezza che le modalità di verifica devono cambiare in funzione del tipo di sapere che si vuole valutare.
D) Gli «ausili». Qualcuno è poi convinto che l’innovazione didattica passi dall’abbandono dei vecchi libri di testo (dal sussidiario in su). Si vuole in questo modo enfatizzare l’acquisizione della capacità di costruire da soli i contenuti da studiare. Si pensi alla possibilità di “costruire” i materiali di studio mettendo insieme file tratti da opere diverse ovviamente digitalizzate. Tante le esperienze citabili. Sia quelle messe a disposizione da editori privati (vedi: Pandoracampus del Mulino o MyZanichelli); sia l’universo che va sotto il nome di Open Educational Resources (OER: se ne parla molto nella sesta settimana del corso online qui recensito).
E) Il «chi». Infine, il «mantra» innovazione investe anche il ruolo di chi insegna. Chi deve essere oggi l’insegnante? Un indottrinatore che impone di mandare a memoria verità preconfezionate? Un istruttore che spiega i passaggi per risolvere i problemi (così come si può spiegare come si cambia una gomma forata)? Un orientatore che aiuta a trovare la propria strada nella vastità dei saperi? Qualcuno che deve limitarsi ad insegnare come si impara? Non a caso il punto di partenza del corso qui commentato è proprio la metamorfosi da “docente oratore” a “docente designer”.
La proposta di Sancassani ricorda un’efficace efficace similitudine formulata dai professori Antonietti e Cantoia: il formatore può essere paragonato al regista di un’opera teatrale. Egli predispone i luoghi entro cui prenderà vita la rappresentazione con riguardo alle strutture fisiche e, soprattutto al significato culturale che le stesse possono acquisire. Poi costruisce lo sfondo ovvero il clima nel quale matureranno le diverse esperienze formative affinché acquistino efficacia. Quindi procede a definire le impostazioni di base che vuole dare al proprio lavoro decidendo: modalità di lavoro, forme di organizzazione, criteri di valutazione e così via. È solo a questo punto che sulla scena entrano i soggetti che desiderano apprendere: soggetti che, come il formatore, hanno stili e attitudini personali. Il formatore deve gestire le singole individualità e, soprattutto, coordinare e sovrintendere le azioni e gli eventi che consentiranno al soggetto di apprendere[xi].
Alla luce di quanto appena esposto possiamo concludere che quando si parla di «innovazione didattica» in realtà si fa riferimento a tante cose e un po’ a tutti gli «ingredienti» di un processo formativo. Non c’è nulla di male in questa «polisemia», purché se ne sia consapevoli e si tengano nel debito conto le ricadute di ognuna delle possibili innovazioni. Lo snodo veramente importante è quello della visione d’insieme.
Considerazioni finali.
Il corso online qui analizzato (per la sua pregevole fattura) ci fa capire che la didattica a distanza non si può esaurire nel registrare un video e postarlo da qualche parte nella speranza che qualcuno lo veda. Ci vuole un progetto, una sceneggiatura, delle scene, degli artefatti, un regista o almeno un montatore e così via.
Provo a spiegarmi meglio.
Molti affermano che ciò che conta è la sostanza; i contenuti “parlano” da soli; tutto il resto è superfluo; anzi il resto deve scomparire per lasciare spazio ai contenuti.
Epperò.
Immaginate di andare a teatro a vedere una rappresentazione shakespeariana. Che so: Il mercante di Venezia.
Vi accomodate in poltrona e attendete che si spengano le luci e che si illumini il palcoscenico.
Invece questo non accade: la rappresentazione inizia, gli attori recitano, ma su un palcoscenico buio perché ad essere illuminata è solo la platea. Pensate di essere capitati in un teatro di avanguardia: ma al tempo stesso capite che l’oggetto della rappresentazione non sarà più il testo di Shakespeare ma qualcos’altro che vi apprestate a scoprire (magari con una punta di disappunto e delusione). Pensate comunque che il “contenuto” cambierà e che, se va bene, il Mercante di Venezia ne costituirà al massimo una parte (o un “pre-testo”).
Trasferitevi ora in un’aula universitaria. Di quelle grandi, ad anfiteatro, che ospitano 200 o più persone. Immaginate che anche li resti illuminata la sala ma non la cattedra e che il professore faccia lezione nella semioscurità. Considerereste del tutto normale la situazione? Oppure pensereste che c’è qualcosa di stonato? Soprattutto: pensate che chi ha “costruito quella scena” ha agevolato o peggiorato la predisposizione ad apprendere i contenuti (che dovrebbero “parlare da soli”)?
A teatro, a lezione (che non è molto diversa da una rappresentazione teatrale) illuminare il soggetto che parla è un modo per convogliare l’attenzione dello spettatore/ascoltatore. E l’attenzione, insieme alla motivazione, è la premessa dell’apprendimento.
La comunicazione dei contenuti non è meno importante dei contenuti. E l’aspetto appena trattato è solo uno dei tanti ingredienti della comunicazione efficace.
Certo non bisogna cadere nel tranello di puntare tutto sulla comunicazione (come oggi spesso accade) come metodo per camuffare la mancanza di contenuti. Ma si sbaglia se si crede che i “contenuti parlano da soli”.
La seconda considerazione riguarda il passaggio, suggerito da Sancassani dal docente oratore al docente designer. Non è detto che i ruoli debbano ritrovarsi in un’unica persona. Forse dovremo abituarci all’idea che un professore costruirà il format e un altro professore andrà in aula a svolgere quella parte di didattica che richiede solo di saper esporre bene certi contenuti.
Mettere al centro del processo di apprendimento lo studente ha importanti ricadute.
La libertà di insegnamento (e il conseguente diritto del professore di insegnare) deve contemperarsi in qualche modo con la libertà di apprendimento (e il diritto del soggetto che apprende di raggiungere gli obiettivi di apprendimento, che forse è la parte più rilevante del diritto allo studio).
Ma di questo parleremo un’altra volta.
[i] Susanna Sancassani fa parte del consiglio scientifico e direttivo della SieL (Società italiana di e-learning) e coordinatore del tavolo “Ecosistemi digitali come driver di innovazione didattica” della CRUI (Conferenza dei rettori delle università italiane). Federica Brambilla, Daniela Casiraghi e Paolo Marenghi lavorano al METID dai primi anni Duemila. Si occupano della progettazione di interventi di didattica innovativa in contesti universitari, multidisciplinari e internazionali.
[ii] Può essere utile la lettura del libro che Biggs ha scritto insieme a Catherine Tang dal titolo Teaching for Quality Learning at University.
[iii] Ho approfondito le categorizzazioni di Bloom nel libro G. Pascuzzi, Avvocati formano avvocati, Bologna, Il Mulino, 2015, 72 ss. I descrittori di Dublino sono spiegati nel libro G. Pascuzzi, Giuristi si diventa, Bologna, Il Mulino, 2019, 12 ss.
[iv] Ho approfondito questi aspetti nel libro G. Pascuzzi, Avvocati formano avvocati, Bologna, Il Mulino, 2015, 185 ss..
[v] Ho approfondito le diverse teorie nel libro G. Pascuzzi, Avvocati formano avvocati, Bologna, Il Mulino, 2015, 43 ss.
[vi] Da anni a Trento impartisco il corso di Diritto civile II usando il metodo del problem based learning. Per approfondimenti v.: https://www.giovannipascuzzi.eu/2019/02/14/diritto-civile-ii-modalita-pbl-problem-based-learning/ .
[vii] Ho approfondito le diverse strategie nel libro G. Pascuzzi, Avvocati formano avvocati, Bologna, Il Mulino, 2015, 97 ss.
[viii] Il documento è reperibile al seguente indirizzo https://www.unitn.it/alfresco/download/workspace/SpacesStore/77a57f31-8093-4471-b38c-9516c98ffec8/789_18_D_come_didattica_pubblicazione_A4_ver5_web%20(2).pdf.
[ix] Per questo, ormai molti anni fa, proposi di attivare, nella mia facoltà, il corso “Le abilità del giurista – Legal skills” (https://www.giovannipascuzzi.eu/2019/02/14/le-abilita-del-giurista-legal-skills/). Sulla distinzione tra Conoscenze, abilità e competenze v.: G. Pascuzzi, Giuristi si diventa, Bologna, Il Mulino, 2019.
Si veda anche la Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 aprile 2008 sulla costituzione del Quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente.
La Raccomandazione descrive 8 livelli di qualifiche. Il livello 6, il livello 7 e il livello 8 (ovvero le qualifiche più avanzate) corrispondono, rispettivamente al primo, al secondo e al terzo ciclo del Quadro dei titoli accademici dell’istruzione superiore.
La Raccomandazione fornisce le seguenti definizioni:
«Risultati dell’apprendimento»: descrizione di ciò che un discente conosce, capisce ed è in grado di realizzare al termine di un processo d’apprendimento. I risultati sono definiti in termini di conoscenze, abilità e competenze.
«Conoscenze»: risultato dell’assimilazione di informazioni attraverso l’apprendimento. Le conoscenze sono un insieme di fatti, principi, teorie e pratiche relative a un settore di lavoro o di studio. Nel contesto del Quadro europeo delle qualifiche le conoscenze sono descritte come teoriche e/o pratiche.
«Abilità»: indicano le capacità di applicare conoscenze e di utilizzare know-how per portare a termine compiti e risolvere problemi. Nel contesto del Quadro europeo delle qualifiche le abilità sono descritte come cognitive (comprendenti l’uso del pensiero logico, intuitivo e creativo) o pratiche (comprendenti l’abilità manuale e l’uso di metodi, materiali, strumenti).
«Competenze»: comprovata capacità di utilizzare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e personale. Nel contesto del Quadro europeo delle qualifiche le competenze sono descritte in termini di responsabilità e autonomia.
[x] Cfr. G. Pascuzzi, Avvocati formano avvocati, Bologna, Il Mulino, 2015, 97 ss.
[xi] A. Antonietti e M. Cantoia, Come si impara. Teorie, costrutti e procedure nella psicologia dell’apprendimento, Milano, Mondadori Università, 2010, pag. X.