Molto si è parlato, nelle scorse settimane, della scelta di Google di erogare propri “corsi di laurea”, della durata di 6 mesi, al costo di 300 dollari, che soppianterebbero le lauree quadriennali universitarie.
Proviamo a capire qualcosa di più.
a) Tra le tante attività, Google ne ha una che si chiama “Grow with Google” (cresci con Google) che si propone, dal 2015, di aiutare “milioni di persone a trovare un lavoro, a far crescere la propria carriera o impresa”.
b) In tale contesto sono stati varati i “Certificati di carriera”. L’obiettivo è chiarito dallo slogan che invita a seguire questi corsi: “Impara le abilità pronte per il lavoro per iniziare o far progredire la tua carriera in settori ad alta richiesta. Questi certificati sviluppati da Google ti mettono in contatto con i migliori datori di lavoro nazionali che stanno assumendo per ruoli correlati”. I corsi che portano a conseguire detti certificati: si completano in 6 mesi; non richiedono esperienza pregressa; sono sviluppati interamente da Google e ospitati su Coursera (una piattaforma, esistente da tempo, di didattica a distanza). Sono già disponibili: il certificato del professionista dell’assistenza IT di Google e Google IT Automation con certificato Python Professional. Nel prossimo futuro saranno varati (sempre su Coursera) i seguenti certificati di carriera: Analista dati; Responsabile di progetto; UX Designer; Specialista del supporto IT.
c) Google ha detto che “nelle proprie assunzioni” considererà questi certificati come equivalenti ad una laurea universitaria.
Alcune considerazioni.
Si tratta di un numero molto limitato di “corsi di laurea” tutti nell’area dell’information technology (quella, cioè, propria di Google). Fa scalpore il fatto che questi corsi durano 6 mesi rispetto ai 3/4/5 anni delle lauree. Google si fa vanto del fatto che i docenti sono tutti propri dipendenti. Il tutto fa pensare che ci troviamo di fronte ad una sorta di “apprendistato” dove si inculcano procedure, strategie e valori dell’azienda. Una specie di “economia curtense” moderna, applicata alla conoscenza.
Il tema generale è quello del rapporto tra formazione universitaria e lavoro.
Molti sostengono che l’Università “non serve” a trovare un lavoro (e di lavoro i giovani, e non solo loro, hanno bisogno): di qui l’ansia per le cosiddette “lauree professionalizzanti”. Alcuni dei grandi player del mondo digitale non chiedono più il possesso di un titolo di studio nelle assunzioni. E difatti la filosofia formativa di Google è rappresentata da “piani di apprendimento basati sui ruoli”, che coprono le competenze specifiche di cui singole aziende partner hanno bisogno per avere successo. Non si dà una formazione a 360° ma si formano specifiche figure professionali. Ma deve essere questa la formazione universitaria?
Non voglio essere frainteso. Un conto è preoccuparsi, giustamente, degli sbocchi professionali dei corsi di studio ad esempio al fine di far apprendere skills e competenze indispensabili nel mondo del lavoro altro è formare la singola specifica figura professionale (tecnico di sistema informatico o ricostruttore di unghie scheggiate cambia poco).
In un libro di 10 anni fa, dal titolo “Non per profitto” (edito in Italia da Il Mulino) Martha Nussbaum scriveva: «L’istruzione volta esclusivamente al tornaconto del mercato globale esalta la scarsa capacità di ragionamento, il provincialismo, la fretta, l’inerzia, l’egoismo e la povertà di spirito, producendo un’ottusa grettezza e una docilità – in tecnici obbedienti e ammaestrati – che minacciano la vita stessa della democrazia e che di sicuro impediscono la creazione di una degna cultura mondiale».
Inoltre c’è un altro elemento da tenere in considerazione. Quando sono state obbligate a fare didattica a distanza causa Covid, le Università di tutto il mondo si sono accorte di non avere infrastrutture proprie e si sono dovute affidare ai giganti del web (“Zoom”, “Team di Microsoft” e così via). E sempre le Università di tutto il mondo già da qualche anno hanno affidato a Google la gestione dei loro servizi di posta elettronica (il corrispettivo è rappresentato dalla cessione gratuita dei dati di professori e studenti).
In sintesi. Almeno nel campo del digitale abbiamo dei grandi player che sviluppano infrastrutture e servizi avanzatissimi e che ora vogliono anche formare il proprio personale. Essi possono far valere l’argomento di poter assorbire forza lavoro e di poter influenzare le politiche formative e assunzionali dei propri partner commerciali grazie all’enorme potere economico/contrattuale che possiedono.
O le Università dimostrano: a) che la formazione superiore è qualcosa di più e di diverso rispetto al mero addestramento a un mestiere; e b) che sono in grado di recuperare la leadership sul know how tecnologico relativo alle infrastrutture che loro stesse usano, oppure questa è una battaglia persa in partenza. Dall’intera società e dalla nostra idea di democrazia.