Di che cosa parliamo quando parliamo di cittadinanza (democratica)? L’interrogativo è stato affrontato da Giovanni Moro[i] nel libro che si intitola proprio «Cittadinanza» edito da Mondadori Università (2020).
Per l’autore la cittadinanza è, in estrema sintesi, un “dispositivo” che serve a garantire inclusione, coesione, sviluppo delle comunità politiche nel quale convergono 3 componenti: l’appartenenza; i diritti/doveri; la partecipazione. Queste ultime, in particolare, sono il distillato dell’eredità che ci ha lasciato il ‘900 anche se oggi viviamo il “Paradosso del ritorno e della crisi”: più si sente il bisogno di cittadinanza più entra in crisi il modello canonico ricevuto. Di qui la necessità di studiare le trasformazioni in atto che possono portare ad una ridefinizione del paradigma.
Nell’Introduzione Moro spiega il suo approccio allo studio del tema riconducibile ai cosiddetti “Citizenship Studies”, un approccio che tiene ferma la distinzione tra cittadinanza come concetto e cittadinanza come fenomeno pur nella reciproca contaminazione (p. 13).
La cittadinanza è uno strumento euristico (perché consente di produrre nuova conoscenza) ma al tempo stesso ha valore causale (la cittadinanza è insieme prodotto ma anche fattore degli elementi costitutivi di un regime politico: i cittadini danno forma alla cittadinanza stessa) (p. 11).
Esistono 3 “luoghi” che permettono di conoscere i caratteri e il funzionamento della cittadinanza:
- Le norme di rango costituzionale (diritti fondamentali, civili, politici e sociali).
- L’acquis civico, ovvero il deposito delle disposizioni legali o basate su policy (leggi, politiche pubbliche, atti amministrativi, accordi collettivi e altro) che definiscono il contenuto della cittadinanza.
- Le pratiche di cittadinanza, ovvero le relazioni dinamiche tra il cittadino e il regime politico e tra il cittadino e la comunità politica (p. 12).
Nel capitolo 1 (“Lo sfondo”) vengono descritte le caratteristiche essenziali del fenomeno.
La cittadinanza è “un’invenzione” che risale al V secolo a.c. e che è stata “reinventata” a partire dal ‘700 con l’avvento degli Stati moderni[ii]. Di quella invenzione la cittadinanza moderna conserva due eredità: a) l’idea della cittadinanza come partecipazione; b) l’idea della cittadinanza come eguaglianza dello status legale (anche se sono idee non facili da mettere in relazione) (p. 19).
In ogni caso la sua epopea è stata tormentata perché sin dall’inizio si è assistito ad una “lotta per la cittadinanza”. Basti ricordare le lotte per il conseguimento della reale uguaglianza tra tutti i membri della comunità politica: si pensi alla condizione delle donne, ovvero al raggiungimento del suffragio universale (all’inizio dell’800 in Inghilterra aveva il diritto di voto meno del 5% della popolazione perché erano esclusi le donne, i nullatenenti, gli analfabeti e così via), o ancora, alla condizione degli americani di origine africana (pp. 19-26).
In ogni caso esistono “visioni” diverse della cittadinanza:
- l’approccio liberale incentrato sull’individuo secondo il quale la cittadinanza consiste in uno status legale e garantisce la libertà attraverso la statuizione di diritti;
- l’approccio repubblicano che pone al centro la responsabilità per il quale la cittadinanza è una pratica di virtù civiche che consistono nell’assunzione di responsabilità del cittadino nel dare forma e nel concorrere a gestire la cosa pubblica;
- l’approccio comunitarista focalizzato sulla comunità che precede la costituzione dello Stato: in questo caso la cittadinanza è una pratica di conformità allo spirito della comunità e si estrinseca nell’esercizio di doveri volti al bene comune (pp. 33-37).
Il capitolo 2 (“Il paradigma della cittadinanza democratica”) è dedicato a descrivere le componenti del “modello canonico” di cittadinanza.
Come si è detto in avvio, la cittadinanza è un dispositivo strutturato in tre componenti: l’appartenenza come status e come identità, i diritti con i doveri e, infine, la partecipazione.
Di seguito un grafico riassuntivo.
a) L’appartenenza: è l’essere (“status”: a1) e il sentirsi (“identità”: a2) parte della comunità politica.
a1) Lo status può essere “legale” (ovvero: essere riconosciuti dallo Stato come membri della comunità) oppure “sociale” (ovvero: l’essere riconosciuti oltre che dalle istituzioni anche dagli altri “interni” ed “esterni”) (p. 45). Lo status legale deriva di regola dallo ius sanguinis e dallo ius soli (particolare il caso dei “denizen” [iii]). Lo status sociale prende corpo sulla base della identificazione dei ruoli. Lo fa la stessa Costituzione quando si riferisce al cittadino lavoratore (artt. 4 e 35); al cittadino proprietario (art. 42); al cittadino imprenditore (ar. 41 e 45) e così via.
a2) l’identità è il senso di appartenenza di un individuo a un gruppo umano composto dall’insieme delle persone che condividono lo stesso sentimento (e che si distinguono da quelle che non lo condividono). Ognuno di noi ha una identità personale e una o più identità collettive (che concorrono a definire l’identità politica che più interessa all’autore) (p. 50). L’identità politica ha due aspetti: quello civico, che fa riferimento allo Stato, e quello culturale, che fa riferimento alla nazione. La loro congiunzione dà luogo al fenomeno dell’identità nazionale che si costruisce in vari modi. Ad esempio: la guerra, l’uso di simboli e rituali, le narrazioni sulla storia e sull’identità della nazione (pp. 52-56).
b) I diritti con i correlati doveri costituiscono il secondo elemento del paradigma della cittadinanza.
Nella dimensione quotidiana essere cittadini significa essere titolari di diritti che sono essenzialmente una materia politica. Esiste un “catalogo” di diritti che si sono espansi nel tempo. Giovanni Moro lo enuclea attingendo agli studi del sociologo inglese Thomas Marshall[iv]. Il catalogo comprende:
– I diritti civili. Nascono del XVIII secolo come risposta all’assolutismo. Riguardano la vita privata del cittadino e lo difendono dagli abusi dello Stato: si pensi alla libertà di pensiero e di azione, all’habeas corpus, al giusto processo.
– I diritti politici. Nascono nel XIX secolo come evoluzione della democrazia parlamentare. Sono legati alla partecipazione e alla vita politica e alla formazione delle decisioni pubbliche: diritto di voto, diritto di associazione, diritto di riunione, diritto di informazione.
– I diritti sociali. Nascono nel XX secolo, come frutto delle lotte operaie. Attribuiscono tutele e servizi apprestati dallo Stato al fine di garantire una rete di promozione sociale: istruzione, sanità, pensioni, previdenza sociale, servizi socio-assistenziali, abitazione[v].
A questo catalogo “classico” si sono aggiunti i cosiddetti “diritti umani”: diritto alla vita, alla libertà, alla sicurezza, a non subire torture e così via.
Essere cittadini significa anche essere destinatari di doveri: i principali sono obbedire alle leggi, pagare le tasse, concorrere alla amministrazione della giustizia (i.e.: partecipando alle giurie popolari nei processi). Sono essenziali per garantire la effettività dei diritti e se ne possono identificare due distinti tipi: i doveri di reciprocità e i doveri di solidarietà.
c) La partecipazione. Consiste nel concorso, tramite l’esercizio del diritto di voto e la organizzazione dei partiti, alla costituzione e al funzionamento del sistema politico rappresentativo. Comprende forme di partecipazione “verticale” (pressione e protesta tramite movimenti sociali e gruppi di interesse) e “orizzontale” (associazionismo, costruzione o rafforzamento di legami sociali).
Il capitolo 3 (“Il paradigma in difficoltà”) è dedicato a quello che Moro chiama “paradosso del ritorno e della crisi”. Nel momento in cui la cittadinanza è fiorita nel terreno delle democrazie essa è anche appassita. Molti eventi hanno minato le fondamenta del paradigma tradizionale della cittadinanza.
Di seguito un grafico riassuntivo dei fattori di crisi del paradigma della cittadinanza democratica.
In particolare ci sono stati mutamenti rispetto a:
a) Appartenenza come status. I confini e le frontiere dei paesi sono diventati porosi cosicché è sempre più difficile distinguere “chi sta dentro” e “chi sta fuori”; si sono indebolite le strutture sociali che tradizionalmente identificavano i cittadini come tali (i principali sono la famiglia tradizionale e il lavoro); si è poi verificata una sorta di secessione della cittadinanza comune: si pensi al fenomeno della “cittadinanza in vendita” cioè alla possibilità di acquisizione prevista anche da alcuni Stati europei (Portogallo, Malta); in direzione analoga vanno le “gated community” enclave residenziale autosegregative.
b) Appartenenza come identità. Si è verificato un indebolimento dell’identità nazionale in connessione con l’emergere di forme di “post-nazionalismo”: si tratta di identità comunitarie come quelli della Lega nord, etniche come quella degli scozzesi o dei catalani, religiose come quelle dell’Isis; un altro indicatore è quello della moltiplicazione dell’identità e delle appartenenze: emergono anche identità ibride, plurali, deboli, connesse a network o community materiali o digitali che hanno sostituito le tradizionali appartenenze forti; infine c’è la crisi dei legami di solidarietà e interdipendenza: c’è un indebolimento della fiducia tra cittadini e una minore disponibilità a venirsi soccorso da momenti di difficoltà, una ritrosia a fare affidamento su cerchie diverse e più larghe rispetto alla famiglia. Alcuni autori hanno coniato il neologismo “recessione civica”[vi].
c) Diritti. C’è una crescente difficoltà per gli Stati democratici a garantire effettivamente i diritti riconosciuti tipici della cittadinanza a cominciare dei diritti sociali; molte domande di diritti da parte di porzioni significative della società sono in realtà domande di riconoscimento di differenze non di uguaglianza: le donne, le persone con disabilità, le comunità LGBT, le minoranze etniche; infine il riconoscimento dei diritti umani, in quanto valevole per tutti, comporta che l’essere o non essere cittadini non fa differenza: se i diritti umani appartengono a tutti che senso ha la cittadinanza?
d) Doveri. Sul versante dei doveri si assiste alla fuga dalla tassazione, e ovviamente c’è una relazione tra il mancato rispetto dei doveri fiscali e le crescenti difficoltà di assicurare la tutela dei diritti sociali; significativa è anche la fine del servizio militare obbligatorio che traduceva in pratica, anche in tempo di pace, l’impegno a difendere il proprio paese; infine stentano ad emergere nuovi doveri ovvero c’è incertezza su quali siano i nuovi standard di comportamento che definiscono l’essere cittadini come parte della comunità.
e) Partecipazione. Per quel che riguarda la partecipazione, la crisi del paradigma tradizionale della cittadinanza è generato dalla inefficacia della sovranità popolare che si esprime nel voto; c’è un abbandono del sistema politico da parte dei cittadini; un indebolimento delle tradizionali constituency cioè dei gruppi sociali rilevanti a cui i partiti facevano riferimento e viceversa; e, infine, emergono nuove forme di partecipazione e di rappresentanza.
Giovanni Moro sintetizza anche il pensiero di Bryan Turner secondo il quale sono stati soprattutto la globalizzazione e l’affermarsi del neoliberismo come visione egemone del mondo a minare le basi della cittadinanza democratica[vii] (p. 85). Egli scrive: «In sintesi, il modello di cittadinanza che si profila da questi mutamenti è caratterizzato dal ritiro dello Stato dall’impegno per la piena occupazione e la sicurezza sociale; dalla erosione delle istituzioni civiche che animavano la società civile; dalla sostituzione della società civile con il mercato come setting della cittadinanza. Il risultato è l’emergere di un cittadino apolitico e isolato che agisce come consumatore di beni e servizi privatizzati; una situazione ancora più accentuata dalla diffusione dei social media, a causa dei quali vengono a mancare i luoghi di incontro e dialogo tra le persone. Si tratta di una cittadinanza in cui scompaiono anche i principali doveri del cittadino come corrispettivo dei diritti: la tassazione, a causa del venir meno della quale si manifesta la crisi fiscale degli Stati; la privatizzazione o il diventare volontario del servizio militare; e quelli connessi alla famiglia, fonte della riproduzione della comunità politica. La cittadinanza che emerge quindi è guidata dal mercato. Il nuovo tipo di cittadino non agisce nella realtà ma la osserva dal suo spazio privato. La conclusione di Turner è drastica: i cittadini oggi assomigliano più a denizen che a veri e propri cittadini».
Il capitolo 4 (“Intermezzo: gli immigrati e la cittadinanza in Italia”) è dedicato all’immigrazione. L’autore descrive le aree di inclusione e le aree critiche. Si veda lo schema qui sotto
Il capitolo 5 (“Trasformazioni”) si occupa dei mutamenti da apportare al paradigma della cittadinanza per restituire ad esso pertinenza. La domanda è: in che modo si dovrebbe modificare il paradigma della cittadinanza perché possa continuare a funzionare?
Giovanni Moro propone alcune possibili linee evolutive:
a) superare l’identificazione tra cittadinanza e nazionalità: occorre riconsiderare la cittadinanza in chiave internazionale, postnazionale, anazionale;
b) riconoscere il carattere plurale della cittadinanza: una cittadinanza multilivello, multipla, flessibile, duale, caratterizzata da un universalismo differenziato;
c) riconoscere che c’è un principio che assume una crescente importanza che è quello della residenza;
d) passare dalla “comunità di origine” alla “comunità di destino”;
e) enfatizzare la partecipazione civica e politica;
f) superare l’idea di uguaglianza come uniformità;
g) superare i confini tra pubblico e privato.
L’autore approfondisce poi le “cittadinanze emergenti” ovvero:
– la cittadinanza urbana
– la cittadinanza europea
– la cittadinanza cosmopolita
– la cittadinanza multiculturale
– la cittadinanza di genere
– la cittadinanza legata al consumo
– la cittadinanza d’impresa
– la cittadinanza digitale
– la cittadinanza attiva.
Nelle Conclusioni Giovanni Moro fa il punto delle proprie ricerche in tema di cittadinanza: un inventario delle cose fatte e delle cose da fare. E poi ripercorre alcune questioni di fondo: il rapporto tra cittadinanza e democrazia; la frattura tra i cittadini e le élite; le contraddizioni della cittadinanza moderna; la necessità del ritorno alla politica.
* * *
Ho trovato il libro di Giovanni Moro molto interessante. L’autore riesce a mettere a fuoco il tema scandendo con chiarezza gli elementi costitutivi e gli snodi evolutivi di un concetto molto importante. Un lavoro meritorio che delimita meticolosamente il perimetro su cui innestare una riflessione sull’argomento e possibili future ricerche.
Tantissimi gli spunti offerti. Io ne isolo solo uno che attiene al rapporto tra cittadinanza e democrazia. Premesso che tutto il libro è dedicato alla “cittadinanza democratica”, Moro se ne occupa in particolare nelle Conclusioni laddove ricorda, tra le altre cose, “l’idea post-’89 di una affinità elettiva tra cittadinanza e democrazia, secondo cui la democrazia genera cittadini responsabili e impegnati, mentre la cittadinanza genera sistemi democratici solidi e dinamici”. Egli dice che le cose non stanno proprio così, perché la cittadinanza mette in questione la vocazione universale e inclusiva della democrazia, mentre la democrazia cerca di porre un freno all’eccesso di cittadinanza in una sorta di tensione strutturale (p. 139).
Il rapporto stretto tra cittadinanza e democrazia impone di affrontare il tema della “competenza” del cittadino. Moro ricorda i tentativi di rafforzare il dispositivo della cittadinanza attraverso meccanismi come “la nuova enfasi sulla educazione civica, le politiche di comunità, le iniziative di democrazia partecipativa o deliberativa promosse dalle istituzioni pubbliche” (p. 85).
Ma come stanno davvero le cose?
Spesso ci si lamenta della incompetenza (vera o presunta) dei nostri rappresentanti politici. Ma esiste anche una «competenza dei cittadini»? Cosa una democrazia può o deve pretendere che i propri cittadini sappiano e sappiano fare?
Nel 2016 il Consiglio d’Europa ha elaborato un modello delle competenze necessarie per partecipare in maniera efficace alla cultura della democrazia (pdf). In tale modello la competenza democratica e interculturale è definita come la capacità di mobilitare e utilizzare valori, attitudini, abilità, conoscenze e/o comprensioni critiche pertinenti per rispondere in modo appropriato ed efficace alle esigenze, alle sfide e alle opportunità che si presentano in situazioni democratiche e interculturali.
Secondo il Consiglio d’Europa, la competenza dei cittadini democratici si sostanzia nel possesso di: A) valori (democrazia, dignità umana, diritti umani, diversità culturale, giustizia, equità, uguaglianza, primato del diritto); B) atteggiamenti (apertura alle altre visioni del mondo, rispetto, senso civico, responsabilità, autoefficacia, tolleranza dell’ambiguità); C) abilità (apprendimento autonomo, pensiero analitico e critico, ascolto e osservazione, empatia, e altre ancora); D) conoscenze e comprensioni critiche del sé, del linguaggio e del mondo (politica, diritto, cultura, culture, religioni, storia, mass media, economia, ambiente, sostenibilità).
Il cittadino è davvero competente se mobilita e utilizza tutto un insieme di risorse psicologiche in modo attivo e adattivo per affrontare le situazioni. Il Consiglio d’Europa fa assegnamento sui sistemi formativi per favorire la maturazione di questo tipo di cittadino.
Possiamo certificare che, in generale, i cittadini posseggano/esercitino il tipo di competenze appena delineato?
Oggi si dà per scontato che ogni cittadino abbia, per il solo fatto di nascere, una serie di diritti di cittadinanza: è l’effetto dell’affermarsi del principio di uguaglianza formale. Ma il trionfo di questi principi è il risultato di una vera e propria «lotta per i diritti»: all’inizio dell’800, ad esempio, in Inghilterra aveva il diritto di voto meno del 5% della popolazione: erano esclusi le donne, i nullatenenti, gli analfabeti e così via. Cosa resta di quella «lotta per i diritti»?
Mi pare che si sia diffusa l’idea di una democrazia «à la carte». Tanti cittadini sono convinti che il proprio compito, lungi dal sostanziarsi nella «fatica» di padroneggiare ed esercitare tutte le competenze individuate sul piano teorico dal consiglio d’Europa, si limiti a scegliere da un menù. Tutto si riduce, al momento delle elezioni, a scegliere sulla scheda questo o quel simbolo esattamente come al ristorante si può ordinare questo o quel piatto o, in un supermercato, si può mettere nel carrello questo o quel prodotto. Se poi nulla piace ci si può tranquillamente disinteressare del tema come fanno i milioni di cittadini che non vanno neanche a votare.
Difficile spiegare in poche righe le ragioni per le quali siamo arrivati fin qui. Sicuramente ha un ruolo la crisi del paradigma della cittadinanza (ben spiegato da Giovanni Moro nel suo libro). E fattore causale è anche il pensiero che attinge a piene mani alla metafora della «offerta politica». Tale pensiero vede nel cittadino non un protagonista della vita democratica ma una «controparte contrattuale» che il ceto politico deve soddisfare. I cittadini comprano con il loro voto (quando votano) le proposte/promesse che i candidati fanno: il loro compito finisce lì.
Ma tutto questo ha conseguenze nefaste. Ha scritto Stefano Rodotà («Il diritto di avere diritti», 2015, pp. 31-32): «Come la loro storia ci dice, i diritti non sono mai acquisiti una volta per tutte. Sono sempre insidiati, a rischio. La loro non è mai una vicenda pacificata. Il loro riconoscimento formale ci parla sempre di una battaglia vinta, ma immediatamente apre pure la questione del loro rispetto, della loro efficacia, del loro radicamento. I diritti diventano così, essi stessi, strumenti della lotta per i diritti».
Troppi diritti civili (libertà di pensiero, giusto processo, possibilità di formare una famiglia tradizionale e no), politici (pluralismo dell’informazione), sociali (sanità, istruzione, pensioni) si stanno svuotando in un’apparente indifferenza collettiva. Perché ci si lamenta del menù e del servizio e si dimentica che si è cittadini solo se si lotta per i diritti, ovvero solo se si agisce attivamente per far funzionare la democrazia e dare corpo all’appartenenza ad una comunità sociale e politica.
Forse l’incompetenza dei rappresentanti è solo il frutto secondario dell’incompetenza dei cittadini. Che non coincide con l’ignoranza. Ma con l’incapacità o il rifiuto di assumere le responsabilità proprie del ruolo di cittadini.
[i] Giovanni Moro è un sociologo politico. È professore associato al Dipartimento di Scienze politiche della Università Sapienza e responsabile scientifico di FONDACA, una fondazione di ricerca con sede a Roma. Si occupa di fenomeni connessi alla cittadinanza e ai suoi mutamenti, di politiche pubbliche, di analisi concettuale e terminologica nella scienza e nel discorso pubblico, di nuove forme di governance e di dinamiche delle organizzazioni a impatto sociale. Ha dedicato particolare attenzione alla cittadinanza attiva e alla cittadinanza europea. Tra i suoi libri: Azione civica (2005), Anni Settanta (2007), Cittadini in Europa (2009), La moneta della discordia (2011), Cittadinanza attiva e qualità della democrazia (2013), Contro il non profit (2014).
[ii] Sulle “invenzioni” operate dal diritto vedi Giovanni Pascuzzi, La creatività del giurista. Tecniche e strategie dell’innovazione giuridica, Zanichelli, Bologna 2018.
[iii] Si definisce “denizen” un residente non cittadino che ha un permesso di soggiorno permanente o di lungo periodo, di regola per ragioni di lavoro (p. 46 e 106).
[iv] Thomas Marshall, Cittadinanza e classe sociale, Roma-Bari, Laterza, 2002.
[v] In argomento vedi Carmelo Calabrò (a cura di), Le vie della cittadinanza sociale in Europa (1848-1948).
[vi] Pasquale Colloca, La “recessione” civica. Crisi economica e deterioramento sociale, Bologna, Il Mulino, 2016.
[vii] Bryan S. Turner, Contemporary Citizenship: Four Types, in Journal of Citizenship and Globalisation Studies, 2017, 10-23; Bryan S. Turner, We are all Denizens now: on the Erosion of Citizenship, in Citizenship Studies, 2016, 679-692.
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