Twitter [pdf] e Facebook [pdf] hanno chiuso gli account di Donald Trump a seguito dell’assalto al Congresso da parte di manipoli di facinorosi. La vicenda, che ha suscitato un mare di polemiche, suggerisce alcune considerazioni.
A) Internet non è solo Twitter. I social network contano miliardi di utenti in tutto il mondo. Ma Internet è molto molto di più dei social e certamente non si esaurisce negli stessi. Il Presidente degli Stati Uniti ha un proprio sito istituzionale. Collegandosi all’indirizzo «whitehouse.gov» si possono leggere tutti gli atti ufficiali del Presidente, i suoi discorsi, e ogni notizia relativa alle sue attività che egli voglia diffondere. Detto sito non è mai stato chiuso. Trump, pertanto, non è stato privato della possibilità di accedere alla rete e di far conoscere le sue azioni. Sono stati chiusi degli account da lui aperti a titolo personale su piattaforme private.
B) Il diritto (privato) dei signori della rete. Per fruire di quel particolare servizio della rete rappresentato dai social tutti noi sottoscriviamo, clickando con il mouse, dei contratti on line. Tali contratti, di diritto privato, disciplinano le regole di accesso e di utilizzo del servizio (si pensi al divieto di caricare contenuti illeciti) e le regole di tutela dei soggetti terzi (ad esempio, non si possono pubblicare le foto di altre persone senza il loro consenso). Alcune clausole sono dedicate all’allocazione dei diritti di proprietà intellettuale dei contenuti caricati (senza autorizzazione non è possibile postare film o musica protetti dal diritto d’autore) mentre altre regole chiariscono che il social network non è responsabile per nessun tipo di danno o controversia che possa derivare dall’uso del servizio. La violazione di queste clausole comporta l’irrogazione di sanzioni come la sospensione, ovvero la cancellazione dei contenuti o dell’account dell’utente. Tecnicamente si chiamano “pene private”.
Quotidianamente vengono sospesi e/o chiusi migliaia di account di utenti che hanno violato le norme del servizio: le fattispecie più frequenti riguardano profili che diffondono notizie false (fake news) o incitano all’odio (hate speech).
Da tempo viene stigmatizzato lo strapotere contrattuale dei “grandi player della rete”. I gestori dei social hanno, di fatto, il potere di imporre le clausole più favorevoli per loro. Noi utenti non possiamo modificarle: o le accettiamo oppure dobbiamo rinunciare a fruire del servizio.
C) Il volto oscuro dei social. Ma il ruolo dominante dei social deriva anche da un’altra circostanza che appare chiara se solo ci si pone una semplice domanda: visto che Facebook, Twitter e simili sono gratuiti come è possibile che queste aziende abbiano ricavi da capogiro? La verità è che essi non sono affatto gratuiti. Il corrispettivo per l’uso di dette piattaforme sono i nostri dati personali: essi hanno valore economico. Facebook e gli altri social guadagnano profilando gli utenti e vendendo detti profili alle aziende interessate a mostrare pubblicità mirata. Ma c’è di più: i social possono essere usati per modificare i comportamenti. È quanto avvenuto nel famoso scandalo Cambridge Analytica: milioni di dati personali estratti da Facebook sono stati usati per interferire pesantemente nelle campagne elettorali. L’episodio appena ricordato ci fa capire che i social possono svolgere un ruolo non secondario anche nelle dinamiche della democrazia.
Sul tema si può dire, in generale, che nessun politico oggi può fare campagna elettorale prescindendo dai social. L’obiettivo è accumulare “follower” e “like”, ovvero: catturare l’attenzione. Ma quest’ultima viene attirata soprattutto quando si assumono posizioni ciniche che favoriscono la polarizzazione: il diverbio che scade nell’insulto attira molto di più di una pacata discussione. I social finiscono così per far emergere gli aspetti peggiori delle persone che vengono alimentati attraverso incentivi sbagliati.
D) Nuove regole per i social. Quanto detto aiuta a capire perché attraverso i social si diffondano hate speech e fake news. Di qui l’urgenza di avere nuove regole. Significativo è che tale richiesta sia giunta dallo stesso Mark Zuckerberg in un editoriale pubblicato il 30 marzo 2019 sul «Washington Post». In quella occasione il fondatore di Facebook ha detto tre cose: gli utenti della rete non sono in grado di governarsi da soli; anche se per molto tempo lo hanno fatto in concreto, i grandi player della rete non sono in grado di dettare le regole e non è neanche giusto che lo facciano; la palla deve tornare a chi è istituzionalmente chiamato a regolare i rapporti tra le persone: gli Stati.
I social hanno tutto l’interesse ad avere regole chiare al fine di limitare la propria responsabilità. Per l’assalto a Capitol Hill qualcuno potrebbe chiedere i danni o addirittura incriminare Zuckerberg e Twitter per averlo reso possibile o quantomeno favorito, consentendo a Trump di veicolare l’istigazione a delinquere. Molte iniziative sono state varate, anche a livello di Unione europea, per confezionare nuove regole per la rete.
E) Comunicazione istituzionale e propaganda politica. C’è un ultimo aspetto da considerare. Donald Trump ha fatto larghissimo uso di Twitter durante la sua presidenza. Salvini, quando era Ministro dell’Interno, ha comunicato via social l’evolversi di vicende come il sequestro della nave Diciotti. Il Ministro Di Maio ho usato Facebook per annunciare il ritorno in Italia di Chico Forti. Il Presidente Conte ha spiegato in una diretta Facebook le misure anticovid appena adottate dal Consiglio dei Ministri. Perché dei politici investiti di cariche istituzionali per comunicare non usano i siti istituzionali ma piattaforme private che hanno tutti i problemi descritti? La risposta immediata è che i social permettono di raggiungere con facilità un’ampia platea di follower. Ma il tutto genera ambiguità perché non si sa se i soggetti in parola si esprimano, di volta in volta, come rappresentanti delle istituzioni o come politici interessati solo alla propria visibilità. Si può generare un corto circuito che andrebbe evitato.
Donald Trump aveva scelto di servirsi a piene mani di servizi offerti da operatori privati ed è rimasto impigliato (come tanti altri) nelle regole dettate da detti soggetti: più che chiedersi perché gli account di Trump siano stati chiusi, forse sarebbe più interessante chiedersi perché non siano stati chiusi prima.
Ma la sua vicenda ha il merito di aver messo sotto i riflettori due problemi arcinoti: lo strapotere dei grandi player della rete e la grammatica della comunicazione politica. Sono temi propri della cittadinanza digitale, ovvero della sfida che ci attende.
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