Quale formazione per la ricerca interdisciplinare?
Giovanni Pascuzzi
in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, n. 1/2021, 337-343
WHICH TRAINING FOR INTERDISCIPLINARY RESEARCH?
ABSTRACT: This essay tries to answer the following questions. 1) What is interdisciplinary knowledge? 2) Is there a «method» of interdisciplinary research? 3) Are there any «skills» of interdisciplinary work? 4) How can the researcher who deals with artificial intelligence, robotics and biotechnology (and interdisciplinary research in general) learn to «govern» the ethical, legal and philosophical «implications» of his work? What is, gnoseologically, an «implication»? 5) What training is needed for these researchers? Is the problem solved by teaching a few hours of philosophy and a few hours of law in physics, computer science or biology courses? Or is there a need for a different and more effective approach? Keywords: Interdisciplinary; Methodology; Research; Skills; Training
Sommario: 1. Introduzione. 2. Cos’è il sapere interdisciplinare? 3. Esiste un «metodo» della ricerca interdisciplinare? 4. Esistono delle «skills» del lavoro interdisciplinare? 5. Cos’è una «implicazione» etica, giuridica e filosofica di una ricerca interdisciplinare? 6. Quale formazione è necessaria per dedicarsi alla ricerca interdisciplinare?
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Introduzione
Nel documento di presentazione del «Workshop neuroni artificiali e biologici: etica e diritto» organizzato dal Dipartimento di Fisica dell’Università di Trento nei giorni 3 e 4 dicembre 2020, si legge testualmente (corsivi aggiunti)[i]:
«Nel progetto ERC-AdG Backup si svolgono attività che mirano a realizzare strutture ibride tra circuiti elettronici e colture neurali per realizzare una piattaforma innovativa per l’intelligenza artificiale. Ci siamo allora posti il problema delle implicazioni etiche, giuridiche e filosofiche delle ricerche nel settore dell’intelligenza artificiale, della robotica e delle biotecnologie applicate. Assieme al progetto BioDiritto della Facoltà di Giurisprudenza di Trento e al Centro per l’informazione e la comunicazione tecnologica della Fondazione Bruno Kessler di Trento, vogliamo organizzare un momento di riflessione su questi temi. Obiettivo del workshop è cominciare una discussione interdisciplinare per creare una comunità all’interno della quale definire percorsi di collaborazione e ricerca futura».
Il progetto BACKUP ha un contenuto altamente interdisciplinare. Esso si pone in un territorio dove confluiscono intelligenza artificiale, robotica e biotecnologie, insieme a discipline più «tradizionali» come la fisica, l’ingegneria, la matematica e così via. In più il progetto non si nasconde l’esistenza di «implicazioni» etiche, giuridiche e filosofiche (di qui, appunto, il workshop).
Ecco che nascono alcune domande che occorre porsi per favorire la riuscita di questo come di tutti i progetti di ricerca interdisciplinare:
1) Cos’è il sapere interdisciplinare? Un «sapere intersezione» tra diversi saperi o è «un nuovo sapere»?
2) Esiste un «metodo» della ricerca interdisciplinare?
3) Esistono delle «skills» del lavoro interdisciplinare?
4) In che modo il ricercatore che si occupa di intelligenza artificiale, di robotica e di biotecnologie (e in generale di ricerca interdisciplinare) può imparare a «governare» le «implicazioni» etiche, giuridiche e filosofiche del proprio lavoro? Cos’è, gnoseologicamente, una «implicazione» ?
5) Quale formazione è necessaria per questi ricercatori? Il problema si risolve insegnando qualche ora di filosofia e qualche ora di diritto nei corsi di fisica, di informatica o di biologia? O occorre un approccio diverso e più efficace?
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Cos’è il sapere interdisciplinare?
Da tempo, ormai, parole come «interdisciplinare», «transdisciplinare», «multidisciplinare» e simili sono entrate a far parte del lessico quotidiano[ii]. Con sfumature e accezioni diverse, fanno tutte riferimento alla necessità di superare gli steccati tra le scienze al fine di affrontare meglio i problemi e produrre nuova conoscenza. La fecondità del dialogo tra saperi, naturalmente, non è scoperta recente. Einstein, nel formulare la teoria della relatività, ha contratto un debito di riconoscenza con le geometrie non-euclidee e con la teoria matematica dei tensori. Keplero descrisse il moto dei pianeti rifacendosi alla teoria di Apollonio sulla geometria dell’ellisse. La convergenza tra i saperi ha anche permesso la produzione di tecnologie sempre più sofisticate: per esempio, nella diagnostica medica, l’avvento di macchinari come la tac o l’ecografia è stato propiziato dal lavoro congiunto di medici, fisici, ingegneri e informatici.
Il problema di classificare la conoscenza si è posto nello stesso momento in cui l’uomo ha cominciato ad accumularla. In Italia, in questo momento storico, la codifica del sapere ovvero la sua classificazione in «discipline», è definita dai settori scientifico-disciplinari (S.S.D.).
I settori scientifico-disciplinari governano: a) le carriere dei professori (anche alla luce del recentissimo accorpamento dei settori scientifico-disciplinari a fini di reclutamento, in settori e macrosettori concorsuali); b) gli ordinamenti didattici dei diversi corsi di laurea triennale, magistrale e specialistica; c) la valutazione della ricerca; d) le forme organizzatorie (esempio: le strutture dipartimentali)[iii].
Tutto ciò favorisce il progresso della conoscenza?
Le discipline sono fenomeni culturali storicamente collocati e determinati. Esse nascono come strumento per governare l’accumulo dei saperi: l’esplosione della conoscenza ha reso necessario classificarla (un po’ come avviene per la classificazione dei libri nelle biblioteche). Ma non bisogna dimenticare che se la scienza è disciplinare non lo è la natura e non lo sono i problemi che dobbiamo affrontare[iv].
Problemi come la tutela dell’ambiente, l’invecchiamento della popolazione, il fabbisogno di energia, la convergenza tecnologica, la gestione del rischio, non possono essere affrontati e risolti attingendo solo a singoli saperi disciplinari.
Di qui la necessità di dedicarsi alla ricerca interdisciplinare. Essendo consapevoli del fatto che essa non produce un «sapere intersezione» tra due saperi o più diversi bensì produce nuovo sapere.
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Esiste un «metodo» della ricerca interdisciplinare?
Le difficoltà cominciano qui: cosa significa andare oltre i saperi disciplinari? Soprattutto: come si fa? Quali sono le premesse metodologiche ed epistemologiche di questa operazione?
La ricerca scientifica pone al centro della propria indagine problemi da affrontare[v].
Per trovare risposta ad essi, il metodo scientifico impone di seguire i seguenti passaggi[vi]:
– identificazione del problema. Un’indagine scientifica comincia quando il ricercatore si trova di fronte a qualcosa che richiede una spiegazione;
– selezione delle ipotesi preliminari. Qualunque riflessione sistematica su un problema richiede una teorizzazione preliminare. Essa, senza anticipare il giudizio, serve per decidere quale tipo di evidenza deve essere cercata e dove o come può essere meglio trovata;
– raccolta di fatti addizionali. Le osservazioni iniziali di regola sono scarne (altrimenti non costituirebbero un problema). Lo scienziato asseconderà l’ipotesi preliminare cercando altri fatti rilevanti;
– formulazione di un’ipotesi esplicativa. Vengono esplicitate le cause generali che producono il fenomeno osservato. L’investigatore ha tutti gli elementi di un puzzle e cerca un modo per dare contezza dell’insieme;
– deduzione di previsioni attendibili. L’ipotesi è solida se dà ragione non solo delle osservazioni da cui si è partiti ma anche di altri fatti (ovvero: se l’ipotesi è vera dovrebbe accadere questo). È ciò che si chiama potere predittivo, ed è uno dei criteri alla cui stregua valutare le spiegazioni;
– verifica delle conseguenze. Le predizioni fatte sulla base dell’ipotesi devono essere controllate;
– applicazione della teoria.
L’approccio interdisciplinare per risolvere problemi contempla alcuni passaggi specifici[vii]:
– identificazione e strutturazione del problema. Occorre considerare lo stato delle conoscenze esistenti nelle diverse discipline rilevanti e tra gli attori della società utili a definire il problema; coglierne gli aspetti rilevanti; definire le domande alle quali le ricerche devono dare risposta; individuare tutti i saperi che devono essere coinvolti;
– analisi del problema. Per prendere in considerazione la rilevante complessità di relazioni esistenti nell’analisi di un problema è necessario comprendere come le diverse prospettive si integrino. Bisogna indagare anche le influenze che ciascun sapere è in grado di esercitare sugli altri saperi;
– capacità di dialogo. Misurarsi con esperti di altri domini non è affatto semplice. Occorre costruire strategie utili alla collaborazione e al dialogo. Il confronto può anche innescare un mutamento nella percezione della natura del problema e indurre a rivedere gli stessi metodi della ricerca.
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Esistono delle «skills» del lavoro interdisciplinare?
Non è questa la sede per affrontare funditus simili questioni. È possibile, però, prospettare almeno alcuni degli ingredienti del lavoro interdisciplinare[viii].
a) L’umiltà. Spesso ci si accosta agli altri saperi con un malcelato senso di superiorità. Ma senza umiltà non è possibile fruire davvero delle acquisizioni raggiunte dai saperi diversi dal proprio. Questo vale in particolar modo nel dialogo tra sapere tecnico-scientifico e sapere umanistico. Il sapere tecnico-scientifico deve conoscere il distillato del sapere umanistico. Ma quest’ultimo deve rendersi intellegibile al primo ed adeguare i propri oggetti di riflessione ai progressi del sapere tecnico-scientifico.
b) La ricerca di tassonomie comuni. A volte gli stessi termini sono usati con accezioni diverse da esperti di discipline diverse. Ad esempio la locuzione «capitale sociale» è usata in sociologia per indicare l’insieme delle relazioni interpersonali formali ed informali essenziali anche per il funzionamento di società complesse ed altamente organizzate, mentre, in ambito giuridico, è usata per indicare l’ammontare dei conferimenti in denaro o in natura dei soci di una società di capitali così come risultante dall’atto costitutivo. Ma esistono anche ipotesi in cui discipline diverse usano termini diversi per indicare gli stessi concetti. È fondamentale quanto meno tentare di costruire delle tassonomie comuni.
c) L’assunzione della complessità. Risolvere problemi significa mettere insieme gli elementi della conoscenza. Essere consapevoli della complessità significa ammettere che i diversi oggetti della conoscenza possono essere indagati da saperi diversi. Le problematiche relative al lavoro (su cui, a norma dell’articolo 1 della Costituzione è fondata la nostra Repubblica) possono essere affrontate facendo tesoro delle conoscenze: sociologiche, economiche, mediche, giuridiche, e così via.
d) La logica dello zoom. Per far dialogare le diverse conoscenze occorre avere, al tempo stesso, visione di insieme e capacità di approfondire i dettagli. Qualcuno descrive questo stato di cose ricorrendo ad una metafora molto efficace: l’immagine dello zoom.
e) Evitare alcuni pericoli. Esistono due estremi: lo specialista che diventa cieco perché perde di vista l’insieme e il dilettante che ritiene di essere onnisciente. Sono posizioni pericolose e inutili che è bene evitare.
f) La formazione a T. Quanto appena detto si riverbera anche sulla formazione. Nella Comunicazione della Commissione UE del 2 febbraio 2009 su «Un nuovo partenariato per la modernizzazione dell’Università», si legge che occorre «aggiungere ai curricoli relativi a tutti i livelli di qualifica competenze trasversali e trasferibili nonché nozioni base di economia e tecnologia. I curricoli in questione dovrebbero essere a «forma di T», ovvero essere radicati nella propria disciplina accademica, ma interagire e cooperare con i partner di altre discipline ed altri settori».
g) L’importanza dei mediani. Insomma: tanto nella ricerca quanto nella didattica abbiamo bisogno di andare oltre i saperi disciplinari. Le risposte non sono a portata di mano. Anche per l’abito mentale degli scienziati. Questi ultimi sono abituati a perseguire l’eccellenza nella propria disciplina. Gli obiettivi prima descritti richiedono caratteristiche diverse. Ad esempio: la capacità di mettere in relazione saperi diversi. Servono persone in grado di capire i modi di ragionare dei diversi esperti (Niels Bohr definiva esperto colui che ha fatto tutti gli errori possibili in un campo estremamente piccolo). Persone che sappiano cogliere i limiti e i punti di forza dei diversi modi di ragionare così da cogliere quanto di positivo c’è nei diversi apporti. Occorrono metodologi del dialogo che come tali si muovano non in verticale verso l’eccellenza nel singolo sapere, ma in orizzontale tra i diversi saperi alla ricerca delle risposte che possono venire solo dal collettivo, dal gioco di squadra. Risposte che presuppongono la capacità di porre le domande giuste in vista di un obiettivo comune.
h) Lavoro di squadra. L’approccio interdisciplinare richiede per definizione un lavoro di squadra. Una abilità importante diventa pertanto la capacità di saper interagire nel gruppo e anche saper assumere posizioni di guida all’interno dello stesso (leadership).
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Cos’è una «implicazione» etica, giuridica e filosofica di una ricerca interdisciplinare?
Nel documento citato all’inizio si fa riferimento all’esistenza di «implicazioni etiche, giuridiche e filosofiche delle ricerche nel settore dell’intelligenza artificiale, della robotica e delle biotecnologie applicate». Ma cosa significa la parola «implicazione» nel contesto della ricerca interdisciplinare?
Secondo il dizionario Zingarelli l’implicare fa riferimento alle conseguenze ad esempio di un gesto. In senso più ampio esso indica un rapporto, una connessione se non addirittura un intrico.
Possiamo quindi dire che l’implicazione è una relazione «intricata». Ma non necessariamente una relazione di causa/effetto. Piuttosto è l’interagire di diversi componenti che formano un quadro unitario pur nella complessità della loro relazione ed anzi proprio come prodotto di essa. Con il risultato che ogni elemento «implicato» è componente irrinunciabile del quadro che senza quell’elemento non sarebbe lo stesso o perderebbe di significato e costrutto.
In questo senso stiamo parlando dell’essenza del lavoro interdisciplinare: tutti i saperi «implicati» (in relazione) nella ricerca interdisciplinare hanno pari significato, pari dignità, pari senso.
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Quale formazione è necessaria per dedicarsi alla ricerca interdisciplinare?
Se si vogliono preparare dei ricercatori che sappiano portare avanti una ricerca interdisciplinare occorre insegnare e far apprendere:
a) il significato di interdisciplinarità;
b) il metodo della ricerca interdisciplinare;
c) le skills del lavoro interdisciplinare.
La situazione attuale non è particolarmente promettente. Specie in Italia vista la logica dominante che è quella dei settori scientifico disciplinari, una logica che, sul piano concorsuale, addirittura punisce i ricercatori che si dedicano allo studio interdisciplinare.
Resta sullo sfondo un problema risalente che è quello del rapporto tra sapere (cosiddetto) scientifico/tecnologico e sapere umanistico. Su questo è bene svolgere qualche considerazione finale.
Più di 70 anni fa, il 21 settembre 1947, Benedetto Croce pubblicò sul Corriere della Sera un editoriale dal titolo «Progresso tecnico e morale». In estrema sintesi egli esponeva 4 concetti:
1) La vita si muove per contrasti. Ben può essere, quindi, che sorga un contrasto tra progresso tecnico e progresso morale.
2) È possibile che ci siano abusi della tecnica, come è possibile che si abusi del pensiero. Ma la l’insorgenza di abusi non ci deve far rinunciare né al progresso del pensiero né al progresso della tecnica.
3) Storicamente il progresso delle scienze e della tecnica è coinciso anche con il progresso del pensiero etico e filosofico. E alle conquiste tecnologiche dell’età moderna ha fatto riscontro (anche come esito di guerre sanguinose) la fede nella libertà e nelle istituzioni correlate.
4) Oggi (per Croce era il 1947) c’è una convergenza tra interesse economico, forza politico/militare e progresso della tecnica. Questa tendenza può innescare una lotta proprio contro gli ideali umani. Ma a trionfare sarà sempre la vita morale dell’uomo (che vive al fondo delle coscienze dei suoi stessi feroci avversari).
Benedetto Croce scriveva queste cose all’indomani della seconda guerra mondiale. Quando parlava di tecnologia non poteva non avere in mente lo scempio della bomba di Hiroshima che dell’uso distorto della tecnologia può essere considerato il simbolo (ma già nel 1935, Salvatore Quasimodo, nella poesia «Uomo del mio tempo» aveva stigmatizzato «la scienza esatta persuasa allo sterminio»).
70 anni dopo il dominio tecnologico è tutt’altra cosa. Per certi versi più pervasivo, con in più quel senso di smarrimento che deriva dall’aver scoperto che la tecnologia non ha mantenuto la promessa di liberare l’uomo dalle sue sofferenze.
Periodicamente si sente ripetere che la cultura italiana risente ancora dell’idealismo crociano e che ci sarebbe bisogno di maggiore «cultura scientifica» (il leit motiv viene ripetuto al momento delle iscrizioni all’Università da chi invita i giovani a disertare le facoltà umanistiche).
Croce probabilmente avrebbe detto che questa contrapposizione è fuori luogo.
Ma dalle sue parole emerge l’importanza fondamentale che, di fronte ai problemi piccoli e grandi, ha la visione etica che ogni individuo dovrebbe avere di sé e del mondo, ovvero quello che oggi viene chiamato «saper essere».
La tecnologia pone problemi enormi: ne hanno consapevolezza coloro che la creano? Faccio un esempio: lo scandalo Cambridge analytica, ovvero l’uso dei social network per manipolare le scelte elettorali delle persone[ix]. Chi ha realizzato gli strumenti tecnologici che rendono possibile tutto ciò si è posto il problema della accettabilità sul piano etico di ciò che stava facendo? Esempi analoghi, oltre che per l’informatica, si possono fare per la biologia, per la medicina, per la matematica che produce i derivati finanziari, e così via.
La cultura scientifico/tecnologica deve procedere di pari passo con la cultura etico/morale.
Il problema non si risolve insegnando qualche ora di filosofia nei corsi di informatica o di biologia. O viceversa.
Non si tratta, ovviamente, di imporre un’etica di stato o di indottrinare le persone. Ma fare in modo che il sapere scientifico/tecnologico si innesti su un pensiero di base umanistico che consenta di fare scelte più consapevoli dei problemi e dei valori in gioco. E lo stesso sapere umanistico deve avere gli strumenti per comprendere il pensiero scientifico/tecnologico perché solo così può affrontare appieno i problemi etico/morali che lo stesso genera.
[i] Il titolo completo del mio intervento al workshop era: «Quale formazione può consentire al ricercatore che si occupa di neuroni artificiali e biologici (ovvero di intelligenza artificiale, di robotica e di biotecnologie) di «governare» le «implicazioni» etiche, giuridiche e filosofiche del proprio lavoro?».
[ii] R. Frodeman, J. Thompson Klein, R. C. Dos Santos Pacheco (a cura di), The Oxford handbook of interdisciplinarity, Oxford, Oxford U. P., 2017.
[iii] G. Pascuzzi, Una storia italiana: i settori scientifico-disciplinari, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 2012, pp. 91-122.
[iv] G. D. Brewer, The challenges of interdisciplinarity, in Policy Sciences, 1999, 32, pp. 327-337.
[v] G. Pascuzzi, Il problem solving nelle professioni legali, Il Mulino, Bologna, 2017, pp. 26 e ss.
[vi] I. M. Copi e C. Cohen, Introduzione alla logica, Bologna, Il Mulino, 2007, 539 ss.
[vii] G. Hirsch Hadorn, C. Pahl, G. Bammer, Solving problem through transdisciplinary research, in R. Frodeman, J. Thompson Klein, R. C. Dos Santos Pacheco (a cura di), The Oxford handbook of interdisciplinarity, Oxford, Oxford U. P., 2017, 440 ss.
[viii] Sul concetto di «skill» v. G. Pascuzzi, Giuristi si diventa, Il Mulino, Bologna, 2019.
[ix] G. Pascuzzi, Il diritto dell’era digitale, Il Mulino, Bologna, 2020, pp. 96 ss.