L’acronimo “STEM” sintetizza le parole inglesi Science, Technology, Engineering and Mathematics e viene utilizzato per indicare le discipline scientifiche e i relativi corsi di studio.
Non passa giorno senza che il mondo delle imprese non lamenti la mancanza di “profili STEM” e non a caso la stessa Commissione Europea nel definire “l’Agenda per le competenze per l’Europa per la competitività sostenibile, l’equità sociale e la resilienza” [COM(2020) 274 final] ha individuato come obiettivo della “Azione 7” proprio l’aumento del numero di laureati in discipline STEM, competenze ritenute indispensabili anche per assicurare la transizione verde e digitale (oggetto della precedente “Azione 6”).
L’importanza di questo tipo di competenze è fuori discussione.
Il tema vero è un altro e può riassumersi in un interrogativo: può esistere un progresso scientifico e tecnologico senza un contestuale progresso morale e sociale? L’enfasi sulle competenze STEM poggia su una narrativa ben precisa che è quella del progresso, della competizione e della innovazione (le parole d’ordine dell’Unione europea e del neoliberismo, a volerne isolare l’accezione migliore). Ma questa narrativa tende ad oscurare i problemi etici e di giustizia sociale che porta con sé.
Provo a formulare due esempi. Per contrastare il Covid abbiamo bisogno urgente di vaccini. Ma nemmeno in tempi di pandemia si è messa in dubbio la logica del brevetto e del profitto che anima le imprese farmaceutiche. Può un ricercatore preoccuparsi solo di trovare il vaccino e non porsi nessuna domanda su chi e come avrà accesso ad esso?
Secondo esempio. Dagli assistenti vocali come “Siri” e “Alexa”, alla “data analysis” fondata sui big data, ai robot, le nostre vite sono sempre più governate dalla cosiddetta intelligenza artificiale. Può il ricercatore che inventa queste meraviglie non porsi domande sul tipo di società che stiamo costruendo, una società della sorveglianza di massa che non conosce più il libero arbitrio perché gli algoritmi decidono per noi?
Il tema non è secondario e difatti non è sfuggito al Presidente Draghi che nel discorso di insediamento al Senato ha detto testualmente: «È necessario investire in una transizione culturale a partire dal patrimonio identitario umanistico riconosciuto a livello internazionale. Siamo chiamati a disegnare un percorso educativo che combini la necessaria adesione agli standard qualitativi richiesti, anche nel panorama europeo, con innesti di nuove materie e metodologie, e coniugare le competenze scientifiche con quelle delle aree umanistiche e del multilinguismo».
La domanda diventa: come si fa ad assicurare una formazione capace di fare sintesi tra cultura STEM e cultura umanistica?
Il tema è complesso e la sua soluzione va ben al di là dell’inserire qualche ora di filosofia o di diritto nei corsi STEM.
Sembrerà strano, ma la difficoltà nasce anche per effetto della crisi del pensiero umanistico, dovuta, secondo me, a due ragioni.
La prima è l’apparente sopravvenuta incapacità di produrre visioni della società, testimoniata dalla povertà progettuale dei partiti che occupano la scena. L’unico vero leader politico mondiale si è dimostrato essere Papa Francesco che, nelle encicliche “Laudato si’” e “Fratelli tutti”, ha disegnato un senso allo stare insieme a livello globale.
La seconda è, in molti casi, l’incapacità degli umanisti di misurarsi davvero con il pensiero STEM. Un indirizzo etico-morale alle innovazioni tecnologiche può essere dato solo se le si comprendono nell’intimo. Questo comporta la necessità di dotarsi degli strumenti per capire il pensiero tecnico-scientifico: altrimenti si finisce di parlare del nulla. Cito un solo esempio perché mi è capitato di trattarne su queste pagine. Gli umanisti che criticano la didattica a distanza per partito preso sortiscono il solo effetto di lasciare il suo sviluppo nelle mani di chi scrive il software. Più costruttivo sarebbe capirne fino in fondo le potenzialità in modo da orientarla ad un uso il più appagante possibile.
Agli albori del pensiero occidentale la cultura era una sola: filosofia, poesia e scienza si tenevano la mano. Poi è sopravvenuta la specializzazione del sapere che ha prodotto gli steccati disciplinari nella ricerca e nella formazione. Tra sapere scientifico/tecnologico e sapere umanistico si è scavato un solco sempre più profondo.
L’innovazione galoppante impone di colmare questo steccato. Cultura STEM e cultura umanistica devono dialogare. Anzi, bisognerebbe evitare di continuare a considerarle culture diverse. Il sapere scientifico/tecnologico deve innestarsi su un pensiero di base umanistico che consenta di fare scelte più consapevoli dei problemi e dei valori in gioco. E lo stesso sapere umanistico deve avere gli strumenti per comprendere il pensiero scientifico/tecnologico perché solo così può affrontare appieno i problemi etico/morali che lo stesso genera. Questo impone di ripensare totalmente i processi formativi ai diversi livelli. Più tardi si comincia a farlo peggio è.
Post scriptum. Nei libri e nei film di fantascienza spesso compaiono civiltà aliene molto più avanzate della nostra. Ma quale sarebbe una civiltà più avanzata? Quella che ha sviluppato tecnologie in grado di superare la velocità della luce o quella che ha eliminato le guerre? Quella che ha sconfitto l’invecchiamento e le malattie o quella che ha sconfitto la povertà e l’ingiustizia sociale? Il punto è che la cultura STEM, da sola, nulla ci dice sul perché valga la pena vivere.