Caro Alberto,
fa molto riflettere la lettera che hai pubblicato mercoledì 6 aprile, nella quale la signora Francesca racconta delle difficoltà che ha incontrato nel fare un versamento nei confronti della P.A., una volta scoperto che non avrebbe potuto utilizzare i tradizionali bollettini postali ma avrebbe dovuto usare lo «SPID» e il portale «PagoPA».
La signora Francesca, che ci dice di aver superato le 75 primavere, non si dichiara contraria al progresso tecnologico, ma ritiene sia «poco professionale che chi pensa al progresso non tenga conto delle varie tipologie di utenti e non è giusto dare per scontato che tutti abbiano computer, SPID o familiari che aiutano».
La missiva ripropone il noto tema del digital divide, ma da una prospettiva che merita di essere approfondita: quella della progettazione dei servizi digitali in relazione al tipo di utenza.
Occorre innanzitutto sottolineare che il problema non riguarda solo le persone più anziane: chi, almeno una volta, non si è sentito inadeguato davanti alle procedure online o non ha imprecato per le rigidità del sistema telematico con il quale si trovava ad interagire?
Tante attività oggi possono essere poste in essere solo attraverso sistemi informatizzati. Un esempio tra i tanti viene dal mondo della scuola: le domande per partecipare alle selezioni per il reclutamento degli insegnanti possono essere proposte unicamente attraverso la piattaforma «POLIS» (POLIS è un acronimo che sta per: Presentazione On Line delle Istanze). Per fare un’ipotesi: cosa accade se una persona, volendo integrare una domanda già presentata, entra nuovamente nel sistema operando nella convinzione di aggiungere un ulteriore documento alla vecchia domanda mentre il sistema interpreta la nuova attività come volontà di sostituire la vecchia domanda così che la persona si ritrova con un’istanza corredata da un solo documento e non con la vecchia istanza con tutti i documenti precedentemente allegati più uno?
In questo caso, la tecnologia invocata per semplificare le cose (e la vita) si rivela come nemica. Quella persona voleva presentare una domanda più completa (così da avere un punteggio maggiore). Il sistema gli ha assegnato un punteggio pari all’ultimo e unico documento che ha ritenuto essere stato presentato.
Ecco il punto. La tecnologia deve poter “interpretare” l’attività svolta dall’utente e agevolarlo nel non compiere errori o nel massimizzare l’utilità della propria posizione: non è pensabile, per tornare all’ipotesi fatta prima, che una persona riapra una domanda già presentata al fine di ottenere un punteggio minore rispetto a quello che avrebbe ottenuto lasciando inalterata la domanda iniziale. O, quanto meno, il software deve avvisare in modo “assillante” che si sta compiendo una attività pregiudizievole ai propri interessi.
La legge (art. 6 della legge 241/1990) prevede che l’amministrazione possa chiedere ai cittadini la rettificazione di dichiarazioni o di istanze erronee e incomplete. Questo istituto viene comunemente definito come «soccorso istruttorio» ed è attuativo dei principi generali di solidarietà, correttezza e buona fede previsti dagli articoli 2 e 97 della Costituzione al fine di giungere all’emanazione di un provvedimento amministrativo giusto, idoneo a contemperare nel miglior modo possibile tutti gli interessi, pubblici e privati, in gioco, garantendo la massima collaborazione possibile tra privato e p.a. ed evitando l’irragionevole risultato di adozione di un provvedimento negativo basato sulla mera incompletezza o erroneità dell’istanza.
Ecco il punto: l’obiettivo deve essere quello di attivare un «soccorso istruttorio digitale».
La transizione digitale non deve significare solo trasformare le vecchie procedure cartacee in procedure informatiche. Ma deve significare anche utilizzare tutte le potenzialità delle tecnologie; in special modo quelle «assistive» in quanto in grado di aiutare le diverse categorie di utenti a non sbagliare o a non avviare procedure addirittura dannose.
E qui torna quanto giustamente rilevato dalla signora Francesca: l’attenzione deve spostarsi sulla fase della progettazione dei sistemi informatici e lo scopo deve essere ben più ambizioso della mera sparizione della carta o della possibilità di non spostarsi per usufruire dei servizi.
L’articolo 13-bis del decreto legislativo n. 82 del 2005 prevede l’emanazione del codice di condotta tecnologica. Tale codice deve disciplinare le modalità di progettazione, sviluppo e implementazione dei progetti, sistemi e servizi digitali delle amministrazioni pubbliche, nel rispetto del principio di non discriminazione, dei diritti e delle libertà fondamentali delle persone.
Deve diventare un principio etico quello secondo il quale la tecnologia deve essere amica e tale può essere solo se progettata in maniera da porre al centro le diverse categorie di utenti con le proprie caratteristiche e con i propri limiti. Anche perché, a ben vedere, la signora Francesca ci rappresenta tutti.