È stata presentata alla Camera una proposta di legge (n. 734) avente ad oggetto «Disposizioni per la tutela e la promozione della lingua italiana».
Ispirandosi a provvedimenti adottati in altri Paesi europei (come, ad esempio, in Francia, la loi 94-665 del 4 agosto 1994, più conosciuta come legge Toubon), i proponenti mirano a rimuovere le barriere linguistiche (costituite dalle parole straniere) che limitano la partecipazione dei cittadini italiani alla vita collettiva, attraverso misure come l’obbligo di usare l’italiano nella pubblicità, nella comunicazione delle amministrazioni pubbliche, nei contratti di lavoro, in alcune modalità di erogazione degli insegnamenti nelle scuole e nelle Università.
Il tema è molto importante e merita di essere approfondito. Basti ricordare una frase di Don Milani: «è solo la lingua che ci fa uguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende la parola altrui».
La proposta di legge si pone come obiettivo proprio quello di garantire la comprensione dei discorsi verbali e scritti e una lingua condivisa è indubbiamente lo strumento necessario per assicurare la comprensione reciproca.
Ma quali competenze sono necessarie per essere comprensibili ovvero per capire e per farsi capire?
A) La competenza sintattica. Consiste nella capacità di produrre frasi formalmente corrette e di comprenderle come tali in base alle regole grammaticali. Spesso le cronache riferiscono di concorsi pubblici nei quali la più parte dei candidati non supera le prove scritte per l’incapacità di esprimersi in un italiano corretto: d’altronde, quante volte si ironizza sulla “scomparsa del congiuntivo”? Ma c’è di più. Studi condotti a livello internazionale sostengono che più di un quarto della popolazione italiana è vittima del cosiddetto “analfabetismo funzionale” che è la condizione di chi è incapace di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere da testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità. E forse non è meno preoccupante scoprire che ampi strati della popolazione si esprimono unicamente in dialetto (che pure svolge funzioni importanti): non mancano proposte di legge che vogliono imporre l’insegnamento dei dialetti nelle scuole. Ma, per l’italiano, le parole dialettali non sono meno insidiose delle parole straniere. Anche perché se il pensiero si forma in dialetto difficilmente può riuscire a concepire ragionamenti complessi (utili a comprendere e governare una società complessa).
B) La competenza semantica. Consiste nella capacità di associare le parole (significanti) agli oggetti, eventi o situazioni (significati) cui corrispondono. Ci sono almeno tre fenomeni che caratterizzano la nostra epoca. Innanzitutto viene usato un numero di parole molto inferiore a quello disponibile nel vocabolario italiano, e questo numero tende a ridursi, con il risultato di rendere difficile comunicare le mille sfaccettature dei sentimenti e delle idee. Un altro elemento peculiare è rappresentato dai “gerghi”, come il politichese, di difficile decifrazione. Decenni sono passati tra le «convergenze parallele» e il «mettere a terra il PNRR», ma in taluni casi la difficoltà di cogliere il significato delle espressioni resta invariata. Infine c’è il fenomeno che Gianrico Carofiglio definisce della «manomissione delle parole»: termini come «giustizia» o «libertà» sono ormai usati in accezioni talmente diverse da risultare incomprensibili. A tacere del fatto che le parole possono costituire la premessa e la sostanza di pratiche manipolatorie.
C) La competenza pragmatica. Consiste nella capacità di comunicare tenendo conto del contesto in cui avviene la comunicazione. Il linguaggio non è solo un insieme di nomi che significano qualcosa, ma è un discorso rivolto a qualcuno: nel linguaggio è insito un fine che guarda all’intesa reciproca. Nel nostro Paese abbiamo una inesauribile fonte di esempi –pubblici e privati- di situazioni nelle quali il contrasto tra ciò che si proclama e ciò che si vive è la conseguenza di una precisa scelta conscia e consapevole di salvaguardare il proprio interesse contingente senza rinunciare a proporsi all’esterno come portatori di norme morali ideali. Si pensi al caso di chi, come educatore, si proclama paladino dell’antimafia e poi si appropria di cibo e tablet indirizzati ai bambini delle famiglie dei quartieri a rischio di infiltrazione mafiosa. In casi come questo ci troviamo di fronte ad uno scarto tra le cose dette e i comportamenti effettivi che lasciano basiti: una contraddizione che mina la convivenza e alimenta la totale perdita di senso. I messaggi obliqui inquinano i legami sociali e le regole della convivenza civile minando la fiducia tra cittadini e tra questi e le istituzioni. Essere ambigui e proporre l’ambiguità come modello allenta i meccanismi della coesione sociale.
Richiamare l’attenzione sull’importanza della lingua italiana significa porre il tema cruciale del capire e del farsi capire: un tema, però, che va oltre l’imposizione di obblighi e sanzioni perché coinvolge nel profondo aspetti culturali, sociali ed etici.