Chiarezza degli atti processuali e processo telematico
Pubblicato sul sito della Giustizia amministrativa il 18 luglio 2023
Sommario. 1. L’obbligo di redigere gli atti processuali in modo chiaro. 2. La chiarezza come problema formale. 3. La chiarezza come problema sostanziale. 4. La «chiarezza digitale». Una proposta. 5. L’articolo 46, comma 3, delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile. 6. Considerazione finale.
- L’obbligo di redigere gli atti processuali in modo chiaro.
A seguito della recente riforma (introdotta dal d. lgs. 149/2022), l’articolo 121 del codice di procedura civile contiene un nuovo inciso finale che recita: «Tutti gli atti del processo sono redatti in modo chiaro e sintetico»[i].
L’obbligo esplicito di redigere in maniera chiara gli atti del processo è (da più tempo) contenuto anche nel codice del processo amministrativo (d. lgs. 104/2020) il cui articolo 3, comma 2, recita: «Il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica, secondo quanto disposto dalle norme di attuazione»[ii]. L’importanza dell’obbligo in parola è tale che il giudice, quando provvede sulle spese del giudizio, deve tener conto anche del rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità di cui al citato art. 3, comma 2 (cfr. art. 26 del codice del processo amministrativo).
Il Consiglio di Stato ha spiegato che la chiarezza e specificità degli scritti difensivi (ed in particolare dei motivi) si riferiscono all’ordine delle questioni, al linguaggio da usare, alla correlazione logica con l’atto impugnato (sentenza o provvedimento che sia), alle difese delle controparti; ne consegue che è onere della parte ricorrente operare una sintesi del fatto sostanziale e processuale, funzionale alla piena comprensione e valutazione delle censure, così evitando la prolissità e la contraddittoria commistione fra argomenti, domande, eccezioni e richieste istruttorie[iii].
La Corte di Cassazione, dal canto suo, ha ribadito che il mancato rispetto del dovere di chiarezza (e sinteticità) espositiva degli atti processuali comporta per il ricorrente il rischio di una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione in quanto pregiudica l’adeguata intellegibilità delle questioni, qualora renda effettivamente oscura l’esposizione dei fatti di causa e così confuse le censure mosse alla sentenza gravata, ridondando nella violazione delle prescrizioni di cui ai nn. 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c., assistite da una sanzione testuale di inammissibilità[iv].
- La chiarezza come problema formale.
Da tempo e da più parti si usa sottolineare l’oscurità ovvero la scarsa comprensibilità del «giuridichese». Bice Mortara Garavelli ha scritto: «I testi giuridici raramente e solo saltuariamente appaiono privi di espressioni desuete, di modi di dire congelati in uno specialismo che non è quello, inevitabile e ineliminabile, del lessico tecnico del settore, ma è invece frutto, abnorme e resistente, dell’assuefazione a una stereotipia tramandata come un marchio di fabbrica»[v].
Ecco, quindi, che negli ultimi tempi si è assistito ad un fiorire di studi e manuali confezionati per dare consigli utili a rendere la scrittura giuridica più chiara e comprensibile.
Cito per tutti il «Breviario per una buona scrittura» elaborato dal «Gruppo di lavoro sulla chiarezza e la sinteticità degli atti processuali» insediato presso il Ministero della Giustizia[vi].
Tra i suggerimenti figurano: non scrivere frasi più lunghe di un certo numero di caratteri; non usare troppe subordinate; e così via.
In generale possiamo dire che una buona scrittura presuppone:
a) la conoscenza del processo (riguarda la definizione di obiettivi, il monitoraggio e la valutazione di come ci si sta avvicinando ad essi, la realizzazione dei cambiamenti necessari);
b) la conoscenza del prodotto (attiene la consapevolezza dei vari tipi, strutture e organizzazioni del testo, data dalla conoscenza di come si sviluppano frasi e paragrafi, delle funzioni di un testo in generale e in un determinato contesto sociale contraddistinto da un obiettivo specifico e da un particolare uditorio).
In ogni caso, la produzione di un testo chiaro nasce dal possesso di tre specifiche competenze:
a) la competenza sintattica: si riferisce all’aspetto formale del messaggio e riguarda la capacità di produrre frasi formalmente corrette e di comprenderle come tali in base alle regole grammaticali;
b) la competenza semantica: riguarda la capacità di associare le parole (significanti) agli oggetti, eventi o situazioni (significati) cui corrispondono;
c) la competenza pragmatica: attiene alla capacità di comunicare tenendo conto del contesto in cui avviene la comunicazione[vii].
- La chiarezza come problema sostanziale.
Ma c’è anche un altro profilo della chiarezza che attiene alla sostanza delle cose che si desidera comunicare. Possono esserci testi sintatticamente, semanticamente e pragmaticamente perfetti ma totalmente inidonei a raggiungere lo scopo per il quale sono redatti.
Buona parte degli atti processuali espongono ragionamenti giuridici e l’esposizione del ragionamento giuridico è anche un problema di costruzione del testo. La costruzione del testo mira a rendere il più possibile esplicita l’interrelazione delle idee, dei dati, dei pensieri che giocano un ruolo nel ragionamento giuridico. La costruzione del testo richiede al soggetto di compiere due operazioni: enucleare gli elementi di base da porre in relazione e imbastire (anche implicitamente) legami associativi tra essi.
Ecco che la chiarezza deve investire non solo la forma ma anche (e, soprattutto) la sostanza dell’atto processuale:
– chiara deve essere l’enunciazione dei fatti rilevanti e la loro interpretazione;
– chiara deve essere l’individuazione del problema giuridico;
– chiara deve essere l’individuazione delle regole operazionali applicabili al problema;
– chiara deve essere la soluzione proposta per il problema giuridico (raggiunta attraverso il ragionamento)[viii].
Numerose norme dettate in materia processuale costituiscono la ricaduta concreta di quanto appena detto.
Di seguito vengono richiamati alcuni articoli del codice di procedura civile (si fa riferimento al testo post riforma Cartabia: d. lgs. 10 ottobre 2022 n. 149).
L’articolo 163, nel fissare il contenuto dell’atto di citazione, stabilisce che esso deve contenere «l’esposizione in modo chiaro e specifico dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, con le relative conclusioni».
L’articolo 342, a proposito della forma dell’appello, stabilisce quanto segue: «L’appello si propone con citazione contenente le indicazioni prescritte nell’articolo 163. L’appello deve essere motivato, e per ciascuno dei motivi deve indicare a pena di inammissibilità, in modo chiaro, sintetico e specifico: 1) il capo della decisione di primo grado che viene impugnato; 2) le censure proposte alla ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di primo grado; 3) le violazioni di legge denunciate e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata».
L’articolo 366, in materia di contenuto del ricorso per Cassazione stabilisce che lo stesso deve contenere, a pena di inammissibilità (tra gli altri elementi): «…3. la chiara esposizione dei fatti della causa essenziali alla illustrazione dei motivi di ricorso; 4. la chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione, con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano…».
Approcci analoghi si ritrovano nel processo amministrativo.
L’articolo 40 del d. lgs. 104/2010 stabilisce che il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado deve «contenere distintamente: … c. l’esposizione sommaria dei fatti; d. i motivi specifici su cui si fonda il ricorso…».
L’art. 101, nel fissare il contenuto del ricorso in appello, afferma che quest’ultimo deve riportare, tra l’altro: «…l’esposizione sommaria dei fatti, le specifiche censure contro i capi della sentenza gravata, le conclusioni…»[ix].
- La «chiarezza digitale». Una proposta.
Da tempo il processo telematico è (o dovrebbe essere) realtà.
È allora lecito chiedersi se la rivoluzione digitale possa apportare un contributo positivo nell’assicurare la chiarezza degli atti processuali (tanto delle parti quanto dei giudici).
Certamente la redazione degli atti in forma digitale può favorire la «leggibilità» e, quindi, la chiarezza. Non mi riferisco solo aI tipo di carattere e alla formattazione che pure possono migliorare la fruibilità visiva. Il testo elettronico rende agevole introdurre immagini (es.: planimetrie o fotografie dello stato dei luoghi), note a piè di pagina e link: tutti strumenti utili, se accortamente usati, a rendere più chiaro il messaggio che si intende comunicare.
Ma gli strumenti tecnologici possono propiziare risultati molto più appaganti.
Per indicare come, prendo le mosse da un principio spesso ribadito dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato.
Nel processo amministrativo di appello, l’inammissibilità dei motivi di ricorso non consegue solo al difetto di specificità, ma anche alla loro mancata indicazione, “distintamente”, in apposita parte dedicata a tale elemento del ricorso (sia esso di primo grado o d’appello), di cui i motivi costituiscono il nucleo essenziale e centrale. Lo scopo delle disposizioni è di incentivare la redazione di ricorsi dal contenuto chiaro e di porre argine ad una prassi in cui i ricorsi, non di rado, oltre ad essere poco sintetici, non contengono una esatta suddivisione tra ‘fatto’ e ‘motivi’, con il conseguente rischio che trovino ingresso i c.d. ‘motivi intrusi’, ossia i motivi inseriti nelle parti del ricorso dedicate al fatto, che, a loro volta, ingenerano il rischio della pronuncia di sentenze che non esaminino tutti i motivi per la difficoltà di individuarli in modo chiaro e univoco e, di conseguenza, incorrano in un vizio revocatorio[x].
Attualmente il processo telematico è sinonimo di deposito telematico degli atti processuali. In altre parole: il difensore (come, del resto, il giudice) redige un testo, lo salva in formato pdf e poi lo carica sulla piattaforma. Tale testo può contenere qualsiasi cosa, ovvero può essere privo di qualcuno degli elementi necessari individuati nelle norme processuali prima richiamate.
Forse si potrebbe fare un passo in più (magari in via sperimentale).
La piattaforma anziché limitarsi a ricevere passivamente documenti in formato pdf, potrebbe mettere a disposizione dell’utente un modello da compilare a video (un “form”) che contenga dei “campi” che devono essere necessariamente compilati (anche come premessa per poter effettivamente inviare l’atto).
Tali campi, oltre a riguardare informazioni “formali” (come: il giudice adito, il nome delle parti, il nome dei difensori, e così via) dovrebbero essere intitolati agli elementi “sostanziali”, ovvero quegli elementi in cui si articola il ragionamento giuridico che si vuole rappresentare e che le stesse norme processuali prima viste individuano.
Così il modello per l’atto di citazione nel processo civile dovrebbe prevedere: a. un campo per l’esposizione dei fatti; b. un campo per l’esposizione degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda; c. un campo con le conclusioni; e così via.
Il modello per il ricorso per Cassazione dovrebbe prevedere: a. un campo dove esporre i fatti della causa essenziali alla illustrazione dei motivi di ricorso; b. un campo (per ognuno dei motivi) dove esporre i motivi per i quali si chiede la cassazione, con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano; e così via.
Il modello per il ricorso in appello in Consiglio di Stato dovrebbe contenere un campo per ogni motivo di appello contenente le censure rivolte al ragionamento seguito dal giudice di primo grado, e così via.
Il processo telematico, in altri termini, potrebbe essere strutturato in modo da guidare l’utente nella redazione dell’atto (è anche possibile ipotizzare che la tanto evocata “intelligenza artificiale” possa, un domani, spiegare perché una determinata formulazione dell’atto non risponde ai dettati delle norme processuali).
L’obiettivo vero è, però, proprio quello della chiarezza in senso sostanziale ovvero rendere chiare l’enunciazione dei fatti, l’individuazione del problema giuridico, l’individuazione delle regole operazionali applicabili al problema, la soluzione proposta.
- L’articolo 46, comma 3, delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile.
L’articolo 46 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, comma 3, recita[xi]: «Il Ministro della giustizia, sentiti il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio nazionale forense, definisce con decreto gli schemi informatici degli atti giudiziari con la strutturazione dei campi necessari per l’inserimento delle informazioni nei registri del processo. Con il medesimo decreto sono stabiliti i limiti degli atti processuali, tenendo conto della tipologia, del valore, della complessità della controversia, del numero delle parti e della natura degli interessi coinvolti. Nella determinazione dei limiti non si tiene conto dell’intestazione e delle altre indicazioni formali dell’atto, fra le quali si intendono compresi un indice e una breve sintesi del contenuto dell’atto stesso. Il decreto è aggiornato con cadenza almeno biennale».
La norma fa sicuramente riferimento a “campi” di contenuto formale. La proposta formulata del testo mira a rendere esplicito l’ampliamento del novero dei “campi” fino a ricomprendere quelli relativi alla “sostanza” dell’atto processuale di parte o del giudice.
Mentre licenzio queste pagine per la diffusione, è disponibile una prima bozza dello schema del decreto del Ministro della Giustizia recante: «Regolamento per la definizione dei criteri di redazione, dei limiti e degli schemi informatici degli atti giudiziari con la strutturazione dei campi necessari per l’inserimento delle informazioni nei registri del processo, ai sensi dell’art. 46 delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile e disposizioni transitorie».
Come appena ricordato, lo schema di decreto disciplina anche gli schemi informatici degli atti giudiziari e statuisce che gli atti di citazione e i ricorsi, le comparse di risposta e le memorie difensive, nonché gli atti di intervento devono essere redatti secondo una precisa articolazione che comprenda, tra gli altri elementi: «esposizione distinta e specifica, in parti dell’atto separate e rubricate, dei fatti e dei motivi in diritto, nonché, quanto alle impugnazioni, individuazione dei capi della decisione impugnati ed esposizione dei motivi».
Sarà interessante analizzare la versione finale del decreto che entrerà in vigore e gli schemi informatici che sulla base dello stesso verranno adottati. Alla luce della bozza gli schemi informatici dovranno contenere dei “campi” che attengono alla chiarezza sostanziale dell’atto processuale.
- Considerazione finale.
Più d’uno potrebbe arricciare il naso nel leggere questa proposta pensando che la sua attuazione sarebbe un modo per ingessare l’attività del difensore e del giudice fino a giungere a processi che si identificano in vuoti e ripetitivi formulari.
Avendo dedicato molti studi alla creatività del giurista, credo di essere ben conscio dell’importanza del ruolo di avvocati e giudici nel garantire l’evoluzione del diritto (anche al di là dei mutamenti legislativi) grazie proprio all’elaborazione concettuale resa possibile dalle dinamiche processuali[xii].
La proposta di introdurre moduli con campi da riempire (il cui uso potrebbe essere meramente opzionale) non riguarda i contenuti che non possono che essere assolutamente liberi bensì la griglia concettuale da seguire nell’esposizione del ragionamento giuridico in modo che sia chiaro (a chi legge, ma ancor prima a chi scrive) quali siano: il problema giuridico, la regola che lo governa, la soluzione raggiunta al termine del ragionamento[xiii].
Giovanni Pascuzzi
Consigliere di Stato
Pubblicato il 18 luglio 2023
NOTE
[i] Per approfondimenti v. D. Dalfino (a cura di), La riforma del processo civile, nella collana «Il Foro italiano –Gli speciali», Piacenza, la Tribuna, 2023.
[ii] Analogo principio è canonizzato dall’art. 5, comma 2, del codice di giustizia contabile (d. lgs. 174/2016): «Il giudice, il pubblico ministero e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica».
[iii] Cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 7 novembre 2016, n.4636. La stessa sentenza ha statuito che l’onere di chiarezza trova fondamento:
i) nell’art. 24 Cost., posto che solo una esposizione chiara dei motivi di ricorso o, comunque, delle ragioni che sorreggono la domanda consente l’esplicazione del diritto di difesa delle altre parti evocate in giudizio;
ii) nella sua strumentalità alla attuazione del principio di ragionevole durata del processo, ex art. 111, comma secondo, Cost., poiché un giudizio impostato in modo chiaro e sintetico, quanto alla causa petendi ed al petitum, rende più immediata ed agevole la decisione del giudice, evita l’attardarsi delle parti su argomentazioni ed eccezioni proposte a mero scopo tuzioristico, rende meno probabile il ricorso ai mezzi di impugnazione e, tra questi, in particolare al ricorso per revocazione, a maggior ragione se proposto con finalità meramente dilatorie del passaggio in giudicato della decisione;
iii) nella necessità della difesa “tecnica”, il che contribuisce a rendere evidente la natura della professione legale quale “professione protetta”, ai sensi dell’art. 33, comma quinto, Cost. e degli artt. 2229 e seguenti del codice civile.
[iv] Cfr. Cass. 13 febbraio 2023 n. 4300.
[v] B. Mortara Garavelli, Le parole e la giustizia, Torino, Einaudi, 2001, p. 153-154. L’insigne studiosa, nelle stesse pagine, metteva in guardia su un aspetto molto importante: «Leggibilità e comprensibilità dipendono in parte notevole dalla presenza di tecnicismi, o autentici e necessari, o spuri e superflui. Occuparsene porta dritto alla questione, sempre aperta, di come e entro quali limiti si possa semplificare e rendere chiaro un discorso specialistico fortemente vincolato e vincolante. Interventi superficiali e semplicistici sulla «forma» possono alterare la sostanza. Se si coltivasse l’illusione di rendere accessibile tutto a tutti non si farebbe che seminare confusione e incertezza interpretativa, matrici di ingiustizia generalizzata. D’altra parte, l’oscurità dovuta all’ermetismo di formule iniziatiche contraddice il sacrosanto diritto che ognuno ha di orientarsi fra le norme e le convenzioni del vivere civile. L’affermazione di questo diritto, però, deve tenere conto realisticamente della necessità di ricorrere alla mediazione di esperti, quando la complicazione intrinseca alla materia stessa metta in difficoltà chi non è specialista. Come si vede, sono in gioco le differenze, nei contenuti e nelle competenze dei destinatari, piuttosto che un illusorio egualitarismo».
[vi] Il documento è datato 16 febbraio 2018 ed è facilmente reperibile su Internet.
Il Consiglio di Stato ha dedicato al tema numerose occasioni di approfondimento. Si veda, da ultimo, il Corso organizzato dall’Ufficio studi e formazione della Giustizia Amministrativa in collaborazione con l’Accademia della Crusca dal titolo «Per una nuova scrittura del provvedimento giudiziario», tenutosi a Firenze nei giorni 9, 10 e 11 novembre 2022, presso la sede dell’Accademia della Crusca.
Mette conto notare che il problema dell’oscurità del linguaggio: a) riguarda in generale il linguaggio amministrativo (M. A. Cortelazzo, Il linguaggio amministrativo. Principi e pratiche di modernizzazione, Roma, Carocci, 2021); b) non è un problema solo italiano (B. A. Garner, Legal writing in plain english, Chicago, The University of Chicago Press, 2001).
[vii] La linguistica testuale (R. A. De Beaugrande e W. U. Dressler, Introduzione alla linguistica testuale, Bologna, Il Mulino 1994) ha enucleato 7 condizioni che lo scritto deve rispettare:
1) Coesione. I segmenti che compongono un testo, ossia le parole che vediamo scritte o udiamo, devono essere collegati fra loro sulla base di dipendenze grammaticali e legami linguistici (si pensi alla concordanza, alla reggenza e all’uso dei modi e dei tempi verbali).
2) Coerenza. Tra i segmenti del testo devono esistere dei nessi logici.
3) Intenzionalità. Chi produce un testo si propone di creare un testo coeso e coerente in grado di soddisfare le proprie intenzioni.
4) Accettabilità. Il lettore si aspetta un testo coeso e coerente utile ad acquisire conoscenze.
5) Informatività. Riguarda la misura in cui gli elementi testuali proposti sono attesi o inattesi oppure noti o incerti.
6) Situazionalità. Attiene ai fattori che rendono rilevante o pertinente un testo in una determinata situazione comunicativa.
7) Intertestualità. Riguarda i fattori che fanno dipendere l’utilizzazione di un testo dalla conoscenza di testi già accettati in precedenza.
[viii] Sul paradigma del ragionamento giuridico sia consentito il rinvio a G. Pascuzzi, Il problem solving nelle professioni legali, Bologna, Il Mulino, 2017.
[ix] Nel processo amministrativo di appello, innanzi al Consiglio di Stato, è inammissibile la mera riproposizione dei motivi di primo grado senza che sia sviluppata alcuna confutazione della statuizione del primo giudice, atteso che l’effetto devolutivo dell’appello non esclude l’obbligo dell’appellante di indicare nell’atto di appello le specifiche critiche rivolte alla sentenza impugnata e le ragioni per le quali le conclusioni, cui il primo giudice è pervenuto, non sono condivisibili, non potendo il ricorso in appello limitarsi ad una generica riproposizione degli argomenti dedotti in primo grado: cfr. Cons. Stato, sez. III, 15 novembre 2022, n. 10035.
[x] Cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 19 maggio 2022, n. 3964.
[xi] Comma aggiunto dall’art. 4, comma 3, lett. b), n. 3), d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, a decorrere dal 18 ottobre 2022, ai sensi di quanto disposto dall’art. 52, comma 1, del medesimo d.lgs. n. 149/2022.
[xii] G. Pascuzzi, La creatività del giurista. Tecniche e strategie dell’innovazione giudica, Bologna, Zanichelli, 2018.
[xiii] La proposta formulata nel testo potrebbe indurre taluno a credere che la stessa si muova sulla falsariga di quanto previsto (nel triennio 2006-2009) dall’art. 366-bis del codice di procedura civile. Detta norma (che non ha avuto molta fortuna visto che fu introdotta dall’art. 6, d. lgs. 2 febbraio 2006 n. 40 e poi abrogata dalla lettera d) del comma 1 dell’art. 47, della l. 18 giugno 2009 n. 69; in argomento v.: R. Caponi, Il nuovo giudizio di cassazione civile: quesito di diritto, principio di diritto, massima giurisprudenziale, in Foro it., 2007, I, 1387) prevedeva che nel ricorso per Cassazione l’illustrazione di ciascun motivo dovesse concludersi a pena di inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto. Non è così.
Innanzitutto si propone un uso opzionale dei “campi sostanziali” escludendo sanzioni di inammissibilità diverse da quelle ordinariamente previste dalla legge processuale.
In ogni caso, l’obiettivo, si è detto, è la maggiore chiarezza. E in tale direzione certamente aiuta una precisa definizione degli elementi su cui si basa il ragionamento tanto dell’avvocato che del giudice, elementi tra i quali non può mancare l‘indicazione delle regole operazionali utili a giustificare la soluzione suggerita e accolta. G. Scarselli, Note sulle buone regole redazionali dei ricorsi per cassazione in materia civile, in Foro it., 2016, V, 61.