Un’indagine etnografica sul Consiglio di Stato francese (“La fabbrica del diritto”, di Bruno Latour). 

Come decide il Consiglio di Stato francese? Applicando una regola ad un caso concreto? Oppure le dinamiche sono più complesse?

A queste domande ha provato a fornire una risposta Bruno Latour in un libro del 2002 dal titolo “La fabrique du droit. Une ethnographie du Conseil d’Etat” di recente ripubblicato in italiano a cura di Paolo Leandri e Domenico Lipari con il titolo “La fabbrica del diritto. Etnografia del Consiglio di Stato” (PM Edizioni, 2020)[i].

 

Bruno Latour (1947-2022) è stato un sociologo e antropologo francese.

Tra le sue opere più conosciute figurano La vie de laboratoire (1979), La science en action (1987), Non siamo mai stati moderni (1991) e Politiche della natura (1999).

Maggiori informazioni sull’autore si possono reperire all’indirizzo

http://www.bruno-latour.fr/fr.html

 

Latour si è dedicato anche al mondo del diritto in un’ottica del tutto particolare: quella dell’etnologo. Nella nota introduttiva a “La fabbrica del diritto” (p. 9) egli spiega:

«Dopo aver svolto, nel 1994, una settimana di studio-pilota grazie la disponibilità di alcuni Consiglieri, ho potuto assistere, durante due sessioni intensive di sei mesi, ai vari lavori e riunioni del Consiglio di Stato. Ho anche potuto partecipare, per un periodo di due mesi, alle attività di formazione dei futuri giudici dei tribunali amministrativi. Negli anni successivi sono ritornato regolarmente al Consiglio per assistere a sedute, realizzare interviste e discutere con alcuni dei miei interlocutori le conclusioni del mio studio prima della sua pubblicazione».

 

In una intervista che chiude la nuova traduzione italiana Latour afferma (p. 310):

 

«Sono stato una “mosca sul muro”, che è un modo di fare antropologia molto datato. Nessuno più segue questo metodo. Sono stato forzato in questa posizione a causa della loro indifferenza rispetto la mia presenza. Nessuno era interessato a me. Nemmeno in modo ironico. Erano tutti completamente indifferenti. Sono stato assolutamente invisibile; naturalmente ciò è stato possibile, perché erano tutti seduti al tavolo a prendere appunti, perché ero dell’età giusta ed della “giusta” estrazione sociale… . Ho quindi estratto dalle loro interazioni ciò che mi interessava, senza preoccuparmi affatto di ciò che poteva essere interessante per loro».

 

Nel libro, quindi, Latour riporta i resoconti di quanto avvenuto in sua presenza: curando di rendere non riconoscibili i nomi delle persone convolte, egli costruisce le proprie riflessioni partendo dai resoconti dei diversi interventi che i vari attori avevano effettuato nella trattazione dei casi ai quali gli era capitato di assistere.

 

Un approccio diverso da quello tradizionale del giurista (e Latour a più riprese ribadisce di non esserlo) ma che, proprio perché offre un diverso e originale punto di vista, risulta di estremo interesse per i giuristi.

 

I CONTENUTI DEL LIBRO

 

I. Nel primo capitolo, intitolato «All’ombra di Napoleone» l’autore ripercorre brevemente la genesi del Consiglio di Stato francese.

 

Scrive Latour (p. 27): «Napoleone Bonaparte ha avuto l’ingegnosa cattiveria di inventare il codice che porta il suo nome e, al tempo stesso, l’esatto contrario del cosiddetto diritto “napoleonico” lasciando al Consiglio di Stato l’incombenza di inventare di sana pianta -basandosi solo sulle proprie decisioni precedenti e in assenza di qualsiasi testo scritto alla maniera anglosassone – una forma di diritto sui generis in grado di proteggere l’amministrato dagli accessi dell’amministrazione. Quando la Costituente ha impedito al giudiziario di conoscere gli atti dell’amministrazione, pena la violazione dei doveri d’ufficio, il diritto amministrativo ha dovuto inventare, lentamente e dolorosamente, un corpo di dottrina per impedire che “il più freddo dei mostri freddi” facesse soccombere i cittadini sotto il giogo del suo potere tirannico. Da qui l’espressione “controllo” che definisce l’essenza della missione del Consiglio. Controllo aspramente conteso -su questo torneremo spesso- perché non deve intralciare l’azione dello Stato ed esercitato da funzionari del tutto particolare che sembrano al tempo stesso giudici e parti in causa».

 

Sul ruolo dei Consiglieri di Stato, Latour torna spesso, ma già a pag. 41 anticipa:

 

«Comprendiamo subito l’estrema difficoltà del diritto amministrativo che deve controllare l’amministrazione…: è vero che i membri Consiglio di Stato sono giudici e parti ma è anche vero che devono diventare dei buoni giudici. Se cedono di un pollice, l’amministrazione, un po’ alla volta, eroderà il loro potere; se fanno infuriare troppo l’amministrazione, essa li ignorerà o li accerchierà».

 

L’autore inoltre:

–  chiarisce che l’organo svolge due funzioni principali (esistono, infatti, le Sezioni del contenzioso e le Sezioni amministrative con funzioni consultive). Proprio questa dicotomia porta l’autore a rilevare, come si è già detto, che il Consiglio, considerato nel suo insieme, è giudice e parte[ii];

– illustra i ruoli svolti dai soggetti che partecipano all’espletamento delle funzioni dei Consiglieri di Stato (come, ad esempio, il Commissario di governo);

– spiega il significato di alcuni termini tecnici usati nell’esposizione, come ad esempio il termine «moyen» (che il traduttore del volume ha reso con «argomento», ma che forse avrebbe potuto essere tradotto con «motivo»: p. 24, nota 11, e poi p. 168, nota 32).

 

 

II. Il secondo capitolo si intitola «La lavorazione di un dossier».

Secondo Latour esiste un oggetto che indirizza tutta l’attività del Consiglio, sul quale si polarizzano tutte le cure tutte le conversazioni, che permette di procedere senza soluzione di continuità a partire dalla querela più articolata fino alle più sublimi vette della dottrina (e a quel surrogato di vita eterna garantito dal Lebon[iii]): si tratta del fascicolo[iv].

 

Scrive Latour (p. 87): «Occorre cominciare a conoscere il diritto partendo dall’inizio, e cioè dai timbri, dagli elastici, dei fermagli, dalle cucitrici, che sono l’attrezzatura indispensabile di ogni causa. I giuristi parlano sempre dei testi, raramente della loro materialità».

 

L’autore descrive la formazione del fascicolo a partire dalla presentazione dell’atto della parte, la procedura di assegnazione di un numero d’ordine (il numero di ruolo), i suoi contenuti ovvero: verbali di poliziotti o uscieri, attestati, copie conformi certificate, testimonianze, certificati e giustificativi che portino il segno di altre istituzioni collocate a monte e già in grado di produrre del diritto o in ogni caso di dare forma giuridica ad elementi di prova empirica (pag. 91).

 

Annota Latour (p. 93): «Bisogna osservare che questi documenti, anche se consentono il giudizio, non sono tutti di natura giuridica… Disperse o archiviate, quelle carte sarebbero state solo informazioni perdute. Dunque, è proprio in ragione della denuncia e a causa dell’incidente che questi elementi di routine hanno retroattivamente preso la forma di diritto».

 

Rileva ancora Latour (p. 100): «Per comprendere l’originalità di questa istituzione, basta considerare queste grandi sale in cui personaggi tutti uguali sul piano del diritto (anche se di età differenti) spariscono, tutti insieme, dietro immense pile di fascicoli, alle prese con le innumerevoli difficoltà dell’intertestualità. Molto democraticamente, tutti sono collocati in grandi sale senza pareti divisorie (si tratta di antichi saloni, sala da pranzo e da ballo); a causa della penuria di locali, il Consiglio, sul terreno della gestione degli ambienti di lavoro, si trova in anticipo di molti decenni rispetto alle grandi imprese che cercano di favorire il “re-engineering”, la “sinergia” e la mobilità dei loro quadri superiori. Da questo momento in poi, il lavoro è del tutto solitario, ma al tempo stesso totalmente collegiale; senza nessuna distinzione gerarchica, i più giovani più anziani sono dotati di risorse».

 

Continua Latour (p. 102-104): «Ed è proprio in questi luoghi, in queste sale ornate, su queste scrivanie, che le carte del fascicolo finiscono per riconnettersi -essendo intermediario il relatore- al vasto corpus delle sentenze del Consiglio e agli innumerevoli documenti che contengono testi di leggi, trattati, decreti, deliberazioni e regolamenti la cui compilazione occupa tutta la biblioteca -il Lebon certamente, ma anche tutti i codici e l’indispensabile database ARIANE che raccoglie su supporto informatico l’insieme delle sentenze del Consiglio. Il relatore non fa altro (ma è un esercizio rischioso) che estrarre dalle carte ingarbugliate del dossier gli argomenti necessari a ricondurre il caso in esame ad altri testi. Dal punto di vista del metodo che, per quanto riguarda il resoconto riportato in questo capitolo, consiste nel seguire gli altri scritti, il relatore stabilisce la connessione e il processo di andata-e-ritorno tra due tipi di scritti: da un lato, i documenti di contraddittorio prodotti ad hoc per (e attraverso) il caso specifico (memorie e appunti vari); dall’altro, testi stampati, testi autorizzati, votati, rilegati ed accuratamente disposti negli scaffali della biblioteca.

 La figura 2.7 permette di mostrare il compito del relatore nella sua effettiva materialità: da un lato troviamo sulla scrivania documenti sparsi, con cancellature e sottolineature, ancora intrisi delle recriminazioni della denuncia e degli argomenti di opposizione; dall’altro, disposti sugli scaffali, i testi ufficiali, ammessi, schedati, referenziati, garantiti. I primi sono sparsi, messi lì in piano e custoditi da una cartella gialla; gli altri sono collocati verticalmente e custoditi da rilegatura in raso o in pelle. Tutto il lavoro consiste nello stabilire la relazione tra i due insiemi di scritti. Il consigliere deve decidere (ma cosa significa decidere?) collegando i primi (ma come?) ai secondi. Tra questi due corpus di testi, un pullulare di fotocopie, di bozze, di saggi, di copie di codici che permette di sovrapporre visivamente (ma attraverso quali operazioni di riconoscimento?) i documenti presi in uno dei mucchi e quelli presi nell’altro.

Si potrebbe dire che il relatore costruisce così fra questi due tipi di documenti una passerella di testi fragile come un ponte di liane lanciato sull’orlo di un abisso: le carte di cui le parti in causa hanno alimentato il fascicolo e quelle che sono arrivate archiviate in biblioteca e nei classificatori giuridici. Questo ponticello si chiama, come già sappiamo, “l’appunto” al quale il relatore aggiunge, prima di passare il suo dossier al segretario, i “visto”, elementi essenziali, oggetti di scrupolo incessante di una vigilanza tanto più grande, quanto più frequente ed acuta è l’attenzione di tutti alla corretta osservanza di questa procedura. Ogni “visto” segnala la totalità dei testi ai quali il progetto letteralmente si aggancia e segnala anche i documenti che sono serviti ad includere la richiesta nel reticolo di testi di diritto. Leggendo i “visto”, il lettore della sentenza afferra dunque le due estremità della passerella, i due punti di ancoraggio.

Legge, Codice, ordinanza ad un’estremità, e dall’altra, richiesta, memoria, giudizi impugnati, allegati al fascicolo. Rimane da innalzare tra questi due punti di ancoraggio ciò che nel linguaggio dei carpentieri è denominato il piano e che qui è designato con il termine di “dispositivo”: una sorta di impalcatura di considerazioni assunte come valide (e introdotte dalla locuzione di rito “considerato che”) ed incastrate tra loro fino alla conclusione cioè fino alla decisione propriamente detta. Bisogna prendere alla lettera il termine “dispositivo”. Sono stati disposti, grazie ad un lavoro di tessitura che dovremo seguire nei capitoli seguenti, i due tipi di letteratura (che sono come la trama e l’ordito), uno dei quali fornisce gli elementi derivanti dalla causa (cioè tutto quello che risulta dal fascicolo e cioè gli argomenti scritti su cui si basa la querela), mentre l’altro fornisce gli elementi di testo (articoli di legge o di codice) che permettono alla fine di decidere, di disporre della richiesta: respingere o annullare. L’appunto, redatto in una prosa divenuta molto tecnica, ha lo scopo di forzare entrambi i tipi di testo e di spingerli ad intrecciarsi gli uni con gli altri.

Gli argomenti (moyens) occupano esattamente la posizione intermedia in quanto per una metà riguardano la questione che ha attivato la causa e per l’altra metà vestono i panni del diritto perché utilizzano le stesse parole di testi pubblicati. L’articolazione progressiva della causa, dallo studio dell’avvocato all’affissione della sentenza, consiste nel far parlare il caso come un testo che utilizza argomenti raggruppati sempre meglio è che man mano che si va avanti, diventano sempre più giuridici».

 

Scrive Latour (p. 106): «Il relatore ha svolto il suo compito. Ha legato la domanda ai testi ed ha proposto, grazie a questo tipo di accostamento, un epilogo possibile. Il potere di legare e di sciogliere che spesso è attribuito al diritto non avrebbe alcun senso senza questo lavoro di accostamento, poi di tessitura, e poi diffusione ed infine di deflagrazione: si tratta della forza di un argomento che infrange un testo stampato o, al contrario, di un testo dotato della forza sufficiente per innalzare davanti all’argomento un ostacolo insormontabile. Come non si capisce nulla di scienza se si innalza un muro di parole davanti alle cose, così non ci si capisce nulla di diritto se si cerca di passare direttamente -senza cioè questa modesta accumulazione di carte di diversa origine- dalla norma ai fatti di specie. D’altra parte, l’etnografo, qui non fa altro che ricordare e descrivere -attraverso la fotografia e il rallentatore di una sequenza vista dall’esterno -ciò che si trova in ogni manuale di diritto amministrativo.

Procedere passo dopo passo è tipico del diritto. Il potere del diritto, come quello di una catena, esattamente tanto forte quanto lo è il suo più piccolo anello e non è possibile analizzarlo senza percorrere l’intera catena, anello dopo anello, senza saltarne nessuno.

Se fosse vero che il lavoro del diritto consiste nel qualificare un evento con una regola giuridica, il compito sarebbe semplice. È qui che questo compito comincia. Nulla prova in effetti che il relatore abbia ragione. Il suo progetto è esattamente solo un progetto, non è ancora una sentenza».

 

Quanto appena riportato rappresenta un primo snodo importante del ragionamento di Latour. Egli vede come fondamentale la costruzione di una “passerella” tra due pilastri fondamentali: da un lato quanto affermato nella domanda di parte dall’altro il distillato dei testi di autorità ricevuti (leggi, sentenze, etc.). Fondamentale è mettere in relazione queste due diverse tipologie di scritti.

L’intertestualità (testi che richiamano altri testi) è una caratteristica fondamentale del procedere del diritto ed è favorito dallo stile tipico delle sentenze amministrative francesi che fanno leva in larga misura sui “Visto” e sui “Considerato che”. A questo proposito conviene ricordare che di recente (2019) il Conseil d’Etat ha pubblicato un aggiornamento del Vade-mecum sur la rédaction des décisions de la jurisdiction administrative (qui il testo).

 

III. Il terzo capitolo si intitola «Un corpo in un palazzo».

Esso è dedicato alla composizione del Conseil d’Etat e alla eterogenea provenienza dei suoi componenti che hanno diverso rango in ragione della loro anzianità (“ordine del Tableau”).

 

Scrive Latour (p. 128-131): «I consiglieri vengono dalla politica o dall’amministrazione dove vogliono al più presto ritornare, a meno che, sfiniti dalle incerte vicissitudini della vita pubblica, dalla durezza del mondo degli affari o dalla gerarchia inesorabile dell’amministrazione, non desiderino adagiarsi nell’ambiente felpato del Consiglio, caratterizzato com’è dall’assenza di capi e da impegni meno stressanti. I giudici del giudiziario continuano ad esserlo per tutta la vita; quando, eccezionalmente, passano dalla giustizia alla politica o al business non ritornano (se non raramente) alle loro precedenti funzioni. I consiglieri di Stato, quanto a loro, sono giudici e consiglieri ad intermittenza e vivono al Palais-Royal come su una piattaforma di decollo o di atterraggio in direzione di (o di provenienza da) altre funzioni. Quelli che, dopo anni di duro lavoro, hanno appreso l’austero mestiere di giudice al Contenzioso amministrativo, lo lasciano per svolgere i compiti del tutto diversi; al tempo stesso, è possibile trovare nel “giro esterno” politici eletti, consiglieri, militari, giornalisti, tutti senza alcuna conoscenza del diritto amministrativo, nominati per esercitare la funzione di giudice che devono apprendere più delle volte dall’A alla Z. Lungi dall’indebolire l’obiettività o il valore di giudice o di consigliere, è proprio questo movimento di sistole e diastole, questo turn over che costituisce, secondo i membri del Consiglio, la principale qualità della loro istituzione.

Considerata nel suo insieme, la dinamica del corpo è semplicissima e di semplicissima comprensione: cresce lentamente, passando dalle 262 unità del 1986, agli oltre 300 effettivi del 1999. Si può accedere al Consiglio direttamente dall’ENA (nella qualifica di uditore), oppure attraverso il “giro esterno”, che permette di entrare con il ruolo di relatore sui ricorsi o con quello di consigliere. Nel 1999 il Consiglio è composto di 206 membri del Corpo e di 90 appartenenti al “giro esterno” (per una metà relatori sui ricorsi e per l’altra metà consiglieri). In ogni caso, la regola secondo cui ad un terzo di esterni devono corrispondere due terzi provenienti direttamente dal Corpo, non relativizza il peso della Scuola nazionale di amministrazione (ENA) poiché 33 membri del “giro esterno” hanno frequentato l’ENA senza che sia stato possibile integrarli subito e direttamente nel Consiglio (la maggior parte di loro ha dovuto prestare servizio nei tribunali amministrativi per molti anni); pertanto la proporzione di “enarchi” si innalza di fatto all’80%. Senza alcun dubbio il Palais-Royal è una casa dell’ENA. Se il peso degli anni non oscura completamente le sottili distinzioni tra i due sottotipi di “enarchi” (quelli che sono del Corpo e quelli che hanno dovuto attendere molto tempo prima di raggiungere i loro ex colleghi di studi) nulla può oscurare le innumerevoli differenze di carriera, di modo di vestire e di parlare, di humour tra l’insieme degli “enarchi” e gli altri i veri esterni.

Da dove vengono questi 57 personaggi, effettivamente stranieri rispetto ai 306 del Corpo? Non si può certo dire che si tratti di illustri sconosciuti, in quanto si tratta sempre di gente proveniente dall’ambiente della politica, del diritto, dello Stato. Vi si trovano cinque ministri, 7 tra prefetti e vice-prefetti, otto magistrati, due deputati, sette militari, quattro professori universitari, alcuni amministratori civili, due avvocati».

 

Come si evince dal testo la parola “enarca” indica chi viene dall’ENA (École nationale d’administration)[v]. L’ENA è stata soppressa il 31 dicembre 2021 ed è stata sostituita dall’Institut national du service public (INSP) a partire dal 1° gennaio 2022[vi].

L’autore si sofferma anche sul tema dei “distacchi”.

 

Scrive Latour (p. 131-132): «Tuttaia non sono tanto le modalità di accesso che rendono interessante il Corpo, quanto la possibilità offerta ai suoi membri di lasciare il Consiglio per tempi più o meno lunghi, trascorsi i quali è consentito di ritornare a svolgere le funzioni di giudice o di consigliere. I membri del Consiglio, per una quota rilevante (che passa dal 24% del 1986 al 36% del 1996) non stanno al Palais-Royal, ma occupano altre posizioni in taluni casi molto diverse. Il “Tableau” distingue tre grandi categorie, ciascuna delle quali corrisponde a vari tipi di distacco: la prima -che d’altra parte è denominata “in funzione al Consiglio di Stato”- permette ad alcuni consiglieri di ricoprire ruoli previsti dalla legge. È il caso del presidente dei tribunali amministrativi, dei segretari della Segreteria generale del governo, dei direttori di gabinetto. Ci sono poi, nella seconda categoria, quelli distaccati (circa 67 secondo le modalità di calcolo previste nel 1996, l’anno di riferimento alla nostra indagine) affinché possano ricoprire altre funzioni come quella di deputato o di senatore (otto membri), o possono essere impegnate nelle grandi amministrazioni pubbliche o nel settore pubblico allargato. Infine, nella terza categoria, ci sono quelli che hanno scelto di mettersi in aspettativa (trentotto) per svolgere le più varie attività (dall’alta finanza alla consulenza giuridica) o, più raramente, per motivi personali».

 

L’autore ricostruisce in una mappa i cambiamenti di posizione registrati nel periodo di tempo preso in considerazione.

 

IV. Il quarto capitolo si intitola «Il movimento del diritto».

Dal mio punto di vista, è la parte più interessante del libro. Si occupa del “ragionamento giuridico” e più in particolare di come i giudici raggiungono la decisione nel caso concreto.

L’autore persegue l’obiettivo non già applicando le metodologie tipiche dei giuristi, bensì usando gli strumenti propri dell’etnologo che, attraverso l’osservazione di una pluralità di udienze, fanno emergere alcuni elementi (definiti: “oggetti di valore”) che incidono sulle dinamiche che conducono ad una decisione.

 

Latour è convinto che (p. 176): «L’applicazione della regola al caso non obbedisce mai ad un semplice automatismo, ma ad una molteplicità di valutazioni che obbligano molto rapidamente a riaprire la discussione giuridica che si riteneva definitivamente chiusa. Il fatto è che nella pratica non abbiamo mai da misurarci con delle regole, ma sempre con dei testi, più o meno forti, sui quali, volendo, può far leva la dinamica del ragionamento».

 

Nella medesima traiettoria Latour afferma che (p. 165): «La dinamica del giudizio non oscilla tra il fatto il diritto, e nemmeno cerca di conciliare fatto e diritto con un compromesso banale. Questa dinamica fa qualcosa di diverso: preleva gli elementi che consentono al dossier di avanzare secondo una procedura specifica alla quale soltanto è possibile associare la qualificazione di giuridico».

 

Per poi rilevare (p. 167): «La giustizia scrive il diritto solo percorrendo strade tortuose. In altri termini, se rifiutasse di procedere in questo modo, se applicasse una regola, non sarebbe possibile qualificarla né come giusta, né come giuridica. Affinché parli in modo giusto, bisogna che esiti».

 

Proprio l’approccio dell’etnologo (vero valore aggiunto del libro) porta l’autore a rimuovere due ostacoli che a suo avviso impediscono di cogliere fino in fondo il “movimento” di coloro i quali “dicono” il diritto. Da un lato l’idea secondo cui il diritto sarebbe una sorta di groviglio di relazioni di potere. Dall’altro il ridurre l’enunciato giuridico all’espressione di una forma, l’applicazione di una regola, alla collocazione di un caso specifico entro una categoria generale (p. 156-157).

 

Latour scrive (p. 158-159): «Tutto l’interesse derivante dall’opportunità di assistere da vicino alle sedute istruttorie è racchiuso nella possibilità di trovare sia i problemi di potere, sia quelli di forma. Essi sono posti “esplicitamente” dai consiglieri, i quali trovano caso per caso delle soluzioni che ci allontanano tanto dalla prima visione (la dissimulazione), quanto dalla seconda (l’espressione di una regola). Per cogliere la realtà profonda del diritto, non seguiremo i consigli dei sociologi e degli epistemologi; cercheremo piuttosto (e volutamente) di rimanere sulla superficie, cercheremo di seguire ostinatamente il percorso esitante del giudizio nel corso del quale i giudici confessano molto chiaramente i loro pregiudizi (dichiarando che non sono sufficienti a definire la soluzione) o si attaccano con passione alla forma negando costantemente il pericolo di cadere in ciò che loro stessi chiamano “giuridicismo” o “formalismo”.

Avendo evitato questi due scogli-il travestimento del potere le impalcature formali-possiamo cominciare a capire quello che fanno questi schiavi che anche nelle giornate d’estate, rimangono incatenati alle loro pile di fascicoli nella prigione dorata del Palais-Royal».

 

Riportare letteralmente quest’ultimo inciso non era di vitale importanza. Lo è il fatto che l’autore non ha voluto mancare di definire “schiavi” (del diritto?) chi lavora al Palais-Royal. Un dettaglio che forse tradisce una “precomprensione” suscettibile di rendere non del tutto attendibile l’analisi. Ma di questo si potrà parlare un’altra volta. In ogni caso mi riprometto di andare a verificare quale termine è stato usato nell’edizione originale francese.

 

Conviene lasciare all’autore la sintesi del capitolo.

 

Latour scrive (p. 208-211): «Possiamo concludere la lunga immersione nella seduta istruttoria analizzata riepilogando tutti i movimenti che abbiamo potuto individuare nel ragionamento dei giudici. Abbiamo scelto di considerare in questo capitolo il diritto nella sua dinamica, nel suo movimento e l’abbiamo fatto compilando la lista degli oggetti di valore trasferiti nel corso dell’azione.

I giudici non ragionano: sono alle prese con un dossier che agisce su di loro, che esercita pressione su di loro, li forza, li spinge a fare qualcosa. Nulla, più di una causa, dà l’impressione di una resistenza, di una cosa. Nulla di più materiale, di più reale. Ma, al tempo stesso, questa materia è dotata di una plasticità assai particolare perché ogni agente -ricorrente, avvocato, relatore, revisore, commissario, gruppo di formazione del giudizio, cronista giudiziario, studioso- modifica la forma degli argomenti e il rilievo dei testi tracciando percorsi divergenti sul “corpo senza organi” del diritto amministrativo; mobilitando, come si trattasse di una guerra, fazioni opposte di fatti, di precedenti, di assunti di buon senso, opportunità e morale pubblica scagliati gli uni contro gli altri e precipitati nella fornace dei dibattiti. Quando tutto finisce, ciò non avviene perché ha trionfato il diritto puro ma perché all’interno dei rapporti di forza e dei molteplici ed eterogenei conflitti che si sono determinati, gli stessi attori protagonisti della vicenda hanno valutato che sono stati trasferiti determinati oggetti di valore e che sono state raggiunte condizioni di reciproca soddisfazione.

C’è innanzitutto l’autorità degli agenti che durante l’intero processo subisce una metamorfosi più o meno completa. E tutti i partecipanti, non solo i giudici, finiscono per vedere modificate le loro posizioni originarie: ci sono ricorrenti più o meno degni di stima, avvocati più o meno abili, commentatori più o meno solidi. C’è poi un secondo oggetto di valore: il ricorso, il cui percorso procedurale si presta benissimo ad un’analisi condotta nei termini dei conflitti, degli avanzamenti, degli ostacoli, dei ripiegamenti, dei ritardi e dei trionfi che si producono durante il processo. Il terzo degli oggetti di valore che abbiamo individuato è l’organizzazione dei ricorsi, dei dossier, dei giudizi, cioè la logistica che in qualche modo permette di rendere compatibili tra loro differenti percorsi delle cause evitando che vi siano troppi scontri, ingorghi, errori, rifiuti e scorie. Poi c’è l’oggetto di valore che abbiamo chiamato l’interesse, senza il quale i consiglieri sarebbero da molto tempo morti nella loro poltrone, consumati dalla noia, con la testa sepolta tra le loro scartoffie. Come vedremo, non è tanto la “libido sciendi”, quanto piuttosto la “libido judicandi” (legata alla difficoltà del caso che obbliga a non poter giudicare troppo rapidamente), una sorta di inquietudine, ghiotta non meno che paradossale, a misurare la difficoltà di giudicare: più è impossibile dire il diritto più la cosa è interessante.

Abbiamo individuato un quinto oggetto di valore, simile al primo (salvo per il fatto che in questo caso riguarda l’autorità degli oggetti giuridici invece che quella degli attori umani). Ogni citazione di una legge all’interno di un dispositivo, ogni riferimento ad un precedente all’interno di una conclusione, ogni richiamo al Lebon durante una seduta istruttoria, ogni classificazione di un giudizio operata dei cronisti giudiziari, modifica il peso del testo in questione e gli attribuisce una solidità tale che i testi successivi possono ricollegarsi adesso modificando un po’ alla volta il paesaggio del diritto che diventa sempre più ricco di contrasti e di sfumature e, in alcuni suoi punti, sempre più confuso, incerto, paludoso. Sono questi oggetti di valore che consentono alle sentenze di fungere da punto di riferimento nei meandri di una storia contrassegnata proprio da essi. Il sesto oggetto di valore è costituito dal controllo-qualità sullo svolgimento del processo che è esercitato in permanenza e in modo riflessivo da tutti gli agenti. “Stiamo operando bene nella prospettiva di fare il diritto? Abbiamo giudicato bene? È così che dobbiamo lavorare? La discussione può essere considerata conclusa?”: questi interrogativi esprimono bene quella sorta di inquietudine continua che tormenta le coscienze e che costituisce un oggetto di valore doppiamente potente perché cerca di valutare la valutazione stessa e, al tempo stesso, cerca di verificare la qualità delle condizioni di qualità del lavoro.

Crediamo di aver identificato inoltre un settimo oggetto di valore, ancora più inconsueto, che abbiamo denominato “l’esitazione”, che corrisponde all’attitudine di coloro i quali enunciano il diritto di agire come se dovessero rapportare la realizzazione della loro performance alla loro capacità di aver lungamente di intensamente esitato, di aver macinato e frantumato la materia dei dossier facendola interagire con molti testi. In effetti è solo in questa sospensione, in questa lentezza, in questa de-connessione preliminare che i consiglieri sembrano trovare la prova della loro libertà di manovra prima che il lavoro di connessione, di tessitura e di decisione possa effettivamente svolgersi. Prima di registrare fedelmente il giusto peso, la bilancia della giustizia deve aver oscillato sufficientemente. L’ottavo oggetto di valore è l’argomento (moyen); lo si consideri una leva un motivo un appiglio o una trappola (quale metafora sarebbe appropriata per descrivere questo fenomeno extraterrestre?), è questo oggetto che permette di trasportare un dossier da un capo all’altro della procedura o da un testo a un caso particolare. Il nono oggetto riguarda la capacità di modificare il diritto spostandolo da uno stato formale, artificiale, inefficace e indiretto ad una situazione più soddisfacente nella quale diventa un po’ più efficace, diretto, leggibile, comprensibile. Infine, il decimo e ultimo oggetto di valore, una sorta di prerequisito dell’intero processo, definisce i limiti interni ed esterni di ciò che attiva il diritto; questi limiti definiscono due poli estremi (entrambi terribili): da un lato l’invasione di ricorsi, l’assenza di certezza del diritto, la paralisi dell’amministrazione (ogni atto può essere impugnato da tutti dovunque in qualsiasi momento); dall’altro, una restrizione delle possibilità di adire le vie legali tale che il giudizio finirebbe per essere ridotto ad una sorta di pelle di zigrino e ricondotto alla buona volontà del Principe al punto che la procedura non potrebbe mai essere avviata».

 

Latour è consapevole del fatto che questa lista di oggetti di valore può apparire agli occhi dei giuristi di professione come un guazzabuglio nel quale l’essenziale non si distingue da ciò che è accessorio. Il giurista coglierebbe immediatamente all’interno di questa lista di condizioni di qualità quella che caratterizza il diritto puro degradando le altre al semplice stato di intermediario, di coadiuvante, di eccipiente, di servente oppure di impediente. Ma l’etnografo, senza vergognarsi della sua ignoranza metodologica, deve ostinarsi a descrivere il diritto “così come lo si fa”.

 

V. Il quinto capitolo si intitola «Oggetto delle scienze e obiettività del diritto».

L’autore opera una comparazione tra mondo della scienza e mondo del diritto anche attraverso la comparazione di due tipologie di laboratori.

La sintesi del capitolo è tracciata dallo stesso autore nella “Tavola comparativa dei regimi di enunciati della scienza e del diritto” (p. 257) di seguito riportata.

 

Catene di referenze (scienza) Concatenazioni di vincoli (diritto)
Lavoro di scrittura implicita Lavoro di scrittura esplicita
Eterogeneità delle fonti di iscrizione: dalla materia alla forma Omogeneità delle fonti di iscrizione: dal formulario alla forma di un fascicolo
Iscrizione per mezzo di strumenti Lezione per mezzo di attori umani
Informazione = trasformazione Informazione = messa in forma
Cascate di trasformazioni che sono lo scopo dell’enunciato Legamenti di referenze brevi e sempre sottoposte al giudizio
Abbandono dei dati di senso comune per i fatti e le teorie Mantenimento del senso comune per tutto ciò che riguarda i fatti
Il dubbio obbliga ad uscire dal laboratorio e ad andare sul campo Il dubbio e la certezza rimangono “entro i confini del dossier”
Istruttoria illimitata Istruttoria limitata mediante il contraddittorio
Fatti + teorie hanno una dinamica comune Una volta che il fatto si è stabilizzato, si passa al diritto
Rapporto mappa/territorio mediante il mantenimento di relazioni costanti Rapporto caso/testo mediante qualificazione (“è x ai sensi dell’articolo y”)
Tassonomia mediante categorizzazione delle essenze Messa in relazione senza considerare l’essenza
Andata il ritorno Andata soltanto
Iterazione ed estensione della conoscenza Omeostasi del corpus del diritto
Produzione di nuova informazione Mantenimento delle connessioni consolidate
Eponimia del ricercatore Eponimia di chi presenta il ricorso
Strade tracciate dai percorsi dell’informazione Strade tracciate dal percorso degli argomenti (moyens)
Centri di calcolo per elaborare modelli Archivi e referenze basati sulla memoria

 

 

VI. Il sesto capitolo si intitola «Parlare del diritto?».

Latour inquadra il senso del lavoro all’interno del suo percorso intellettuale e della sua idea di antropologia.

 

Latour scrive (p. 272): «Assumiamo dunque in questo lavoro il termine “antropologia” non tanto nel senso del ritorno vagamente ironico di un atteggiamento di presa di distanza, quanto piuttosto nel senso di un’indagine, ricominciata ex novo nelle nostre società, su ciò che definisce la modernizzazione (ora che la natura non basta più a farlo), nel senso cioè di un’indagine che permette di scoprire i contrasti ai quali teniamo davvero e senza i quali non saremmo degli esseri umani. Se non siamo mai stati moderni che cosa siamo?[vii] L’antropologia non può essere una scienza dell’uomo senza correre di nuovo il rischio di definire l’umano, l’anthropos.

Non abbiamo alcun interesse ad osservare gli aspetti marginali, divertenti, arcaici e folkloristici della società moderne e non abbiamo alcun interesse a costringerle nella gabbia troppo stretta dei rituali e dei simboli. Siamo invece interessati a cercare ciò che costituisce la loro essenza: la scienza, la tecnica, il mercato e, certamente, anche il diritto. La comparazione non si fa più tra una cultura e un’altra o tra tutte le culture con la natura ma tra un gioco di contrasti e un altro».

Quindi l’analisi si sposta specificamente sul diritto e in particolare sul contributo che il Conseil d’Etat può dare al lavoro dell’antropologo.

 

Latour scrive (p. 275-278): «Il diritto ha sofferto di meno le devastazioni del modernismo: ha custodito in se stesso, nelle sue abitudini, nella sua lentezza, nella sua stessa tecnica nel suo vocabolario qualcosa di più facilmente antropoligizzabile. Se è possibile prendere in giro così spesso i giuristi, ciò avviene perché loro non sono mai stati davvero moderni…

Il Consiglio di Stato sembra considerare ogni studio di scienze umane, di antropologia del diritto, di scienza amministrativa e perfino di dottrina giuridica, con la stessa altezzosa indifferenza con cui gli scimpanzé studiati da Jane Goodall considerano gli articoli dei primatologi… come è possibile che un’istituzione collocata nel cuore dello Stato, mentre tutto le vacilla intorno, si permette di rimanere così poco riflessiva?

Bisogna ripensare lo Stato da cima a fondo, eppure, il suo consigliere, custode e mentore, il suo Catone continua a comportarsi come se nulla fosse successo! Per fronteggiare una crisi di tale portata, questa istituzione dovrebbe costituire nuclei di riflessione, commissioni capaci di far ricorso a tutte le risorse intellettuali e di idee disponibili in campo politico, scientifico, manageriale, nei media e all’ENA per reinventare lo Stato, la sua condotta, i suoi principi, la sua struttura e persino la sua missione. Dovrebbe assumere e far propri tutti i contributi di studio provenienti dalle scienze della politica. Ma non lo fa: nei corridoi del Palais-Royal si continua a sentire solo il rumore felpato dei carrelli trascinati da una sala all’altra dagli uscieri per trasportare pesanti fascicoli».

 

Ed ecco il punto: al Consiglio di Stato, il diritto si presenta in una forma assolutamente pura. Se c’è un’opportunità per studiare il diritto “puro”, ebbene è proprio quella offerta dal Consiglio (p. 279). Di qui la sua scelta: studiare il Consiglio di Stato per capire l’intima funzione del diritto.

Nelle ultime pagine del libro, Latour si propone di definire il diritto: critica Luhman e la teoria sociologica dei sistemi, esclude che il diritto abbia a che fare solo con la nozione di regola e di sanzione, sottolinea la diversità del diritto dall’economia, dalla politica e dalla religione, critica chi pensa che il diritto sia solo una tecnica al servizio dell’ingegneria sociale, per giungere alla propria conclusione.

 

Latour scrive (p. 305-306): «La soluzione sarebbe quella di riconoscere che il diritto è una modalità di esplorazione dell’essere-in-quanto-altro, che il diritto è dotato di un suo proprio modo di esistenza, ha una sua particolare ontologia, produce dimensione umana senza tuttavia essere prodotto da essa, appartiene, in ultima analisi, alla prestigiosa categoria dei “fatticci” (“faitiches”)[viii]. Ciò che fa il diritto non lo fa nessun altro regime di enunciato: conserva la traccia di tutte le dislocazioni per connettere continuamente -mediante il percorso tortuoso della firma, dell’archivio, del testo, del dossier- gli enunciati ai loro enunciatori. Meglio di qualsiasi altro atto, la firma mette in evidenza la particolare forma di attribuzione (assegnazione) del diritto[ix].

In questo piccolo mistero dell’attribuzione e dell’imputazione è racchiusa la ricongiunzione delle figure dell’enunciato operata dalla ragnatela del diritto -e ciò è sufficiente per coltivare la più viva ammirazione per il lavoro dei giuristi senza che lo si debba gravare del compito di svelare i misteri più grandi, senza che si debba esigere dal diritto che sia più vero, più giusto, più legittimo, più morale, più umano.

Di tutto ciò abbiamo cercato di portare le prove in questo lavoro, catturando il diritto attraverso il movimento incessante dei testi che permettono, nei casi controversi, di imbastire una causa ben fondata a condizione però che altri testi abbiano previsto la procedura di soluzione, la quale se, a sua volta, è messa in discussione, consente di andare fino in fondo risalendo, gradualmente (passando da una corte all’altra e da un testo all’altro) alla totalità dei legami fissati prima e che altri agenti -cioè i nostri cari consiglieri- tentano di ricondurre a coerenza mediante un lavoro incessante di ricucitura, di aggiornamento, di oblio, di rettifica, di codifica, di commento, di interpretazione -di modo che nulla sia perduto e nulla sia creato, che tutto ciò che inesorabilmente passa (i tempi, gli umani, i luoghi, i beni e le sentenze) rimanga legato da un filo continuo, la certezza del diritto funga da appiglio a tutti i querelanti potenziali e ciascuno tra tutti gli umani possa trarre il profitto della forza di tutti….

Quest’ultima frase è davvero lunga, difficilmente riassumibile, ma non conserva forse i caratteri essenziali di ciò che è importante affidare al veicolo particolare del diritto? Certamente il diritto è formale, ma ha una sua specifica realtà, quella di “precedere” ogni enunciatore, ogni umano parlante di cui accompagna tutte le movimentate dislocazioni, tutte le meravigliose funzioni e tutte le audaci organizzazioni con un lavoro tanto poco movimentato e meraviglioso, quanto capace di connettere, conservare, legare, segnare, rintracciare. È del tutto inutile che per celebrarlo si facciano suonare i grandi organi della natura, della religione o dello Stato. Non c’è bisogno di tanto frastuono: la sua musica è comunque molto più discreta e senza di essa non saremmo certamente più umani senza di essa avremmo perso le tracce di quello che abbiamo detto. Gli enunciati andrebbero alla deriva e non avrebbero mai la possibilità di trovare i loro enunciatori. Nulla legherebbe lo spazio-tempo in un “continuum”. Non troveremmo le tracce delle nostre azioni. Non sarebbe possibile imputare alcuna responsabilità. Tutto ciò non è forse sufficiente per presentarci dignitosamente davanti agli altri popoli e chieder loro di rispettare il nostro stato di diritto?».

 

BREVI IMPRESSIONI DI LETTURA

 

  • Il libro è sostanzialmente diviso in due parti. La prima (capitoli I-IV) contiene il lavoro propriamente etnografico. Nella seconda parte (capitoli V e VI) l’autore si propone di trarre conclusioni generali sul diritto e sulla sua funzione. Questa seconda parte suscita qualche perplessità (come rilevato anche da Luigi Pannarale nella presentazione del libro organizzata dal sito “Stroncature” e reperibile qui, minuto 37). Ad esempio, quando critica Luhman e la teoria dei sistemi o quando rifiuta in radice l’idea che il diritto possa essere uno strumento di ingegneria sociale (per un approfondimento di quest’ultima prospettiva rinvio alle pagine sulla regolazione contenute nel mio libro “Il problem solving nelle professioni legali”). In poche pagine critica tante teorie sulla struttura e sulla funzione del diritto senza convincere pienamente.
  • Latour spiega di aver scelto il Consiglio di Stato (francese) perché esso sarebbe rimasto impermeabile alla modernità e quindi consentirebbe di lavorare sul diritto “puro”. In questo approccio egli finisce per ricondurre l’intero diritto al diritto amministrativo e alla giurisdizione. Ma il diritto non è solo il diritto amministrativo e non è solo la soluzione giudiziale di un conflitto. Se si perde totalmente di vista, ad esempio, che la globalizzazione trova la sua principale fonte di regolazione nel contratto e che sempre più (anche in ambito pubblicistico) stanno prendendo piede forme alternative di soluzione delle controversie, si corre il rischio di non comprendere fino in fondo la complessità del fenomeno giuridico.
  • Di assoluto interesse è invece la prima parte del libro, quella propriamente etnografica. Latour ci invita a riflettere davvero su come vengano assunte le decisioni. La soluzione di una controversia tutto è (o quasi) tranne che applicare una regola ad un caso. E soprattutto, non è un atto meccanico e non è un atto istantaneo. Egli pone in esponente due elementi: a) la decisione è figlia dell’intertestualità (ovvero di testi che rimandano ad altri testi e in particolare della capacità di ricondurre i testi costituiti dagli atti di parte ai testi che contengono il diritto consolidato: leggi, raccolte di precedenti e così via); b) la decisione è funzione di una serie di variabili che operano nel “lento movimento del diritto” e che Latour definisce “oggetti di valore”. Questi ultimi sono: 1. l’autorità degli agenti che partecipano al giudizio; 2. il percorso del ricorso attraverso i vari ostacoli che incontra; 3. l’organizzazione delle cause che permette di rispettare un ordine determinato; 4. l’interesse delle cause che definisce la difficoltà dei singoli casi; 5. il peso dei testi che tende a delineare un panorama del diritto sempre più contrastato; 6. il controllo-qualità che consente una verifica riflessiva delle condizioni di qualità del processo nel suo insieme; 7. l’esitazione che permette di generare la libertà di giudizio attraverso passaggi dalla de-connessione dei testi alla loro ri-connessione; 8. l’argomento (moyen) che vincola a legare tra loro testi e cause; 9. la coerenza del diritto stesso che consente di modificare la sua struttura interna e la sua qualità; 10. i limiti del diritto grazie ai quali è possibile avviare o sospendere l’attivazione del procedimento.
  • Sarebbe interessante approfondire questo lavoro etnografico che impone di riflettere sui meccanismi (cognitivi ma anche organizzativi) che portano alla decisione effettiva. E sarebbe interessante farlo anche con riferimento all’esperienza italiana, che per molti versi è simile a quella francese. Per fare un esempio: in che modo la collegialità influisce sui meccanismi che dovrebbero governare l’applicazione della regola al caso concreto? E quale ruolo ha l’interpretazione dei “testi” (appartenenti ad entrambe le tipologie prima ricordate), tema sui cui Latour si sofferma molto poco?
  • Il lavoro etnografico muove dalla materialità dei fascicoli. Oggi con il processo telematico tutto è dematerializzato. Questo mutamento epocale cambia qualcosa nello scenario delineato da Latour? E se si, cosa?
  • Assolutamente suggestive sono anche le pagine in cui Latour ipotizza che il Conseil d’Etat non si limiti a fornire pareri su determinati atti del governo, ma che dia fondo alle proprie risorse intellettuali per immaginare (anche facendo tesoro delle riflessioni di saperi diversi da quello strettamente giuridico) le riforme di sistema che appaiono sempre più necessarie per governare un mondo caratterizzato da una crescente complessità.

 

Come detto, ho trovato il libro di Latour di estremo interesse. Ho provato a sintetizzarne i contenuti attingendo alle stesse parole dell’autore. Ma la lettura integrale del volume è affascinante e arricchente. Un intellettuale con una marcia in più che offre un punto di vista diverso e, già solo per questo, fecondo.

 

[i] Per una recensione al volume vedi G. Bonazzi, Dal laboratorio scientifico al Consiglio di Stato: il diritto amministrativo come fatticcio, in “Etnografia e ricerca qualitativa, Rivista quadrimestrale” 3/2008, pp. 451-458.

[ii] Scrive Latour (p. 78):

«Il lettore avrà ora capito che il Consiglio ha due ruoli diversi ma complementari: quello di giudice amministrativo al Contenzioso e quello di consigliere per la relazione di tutti i testi di legge e dei decreti dell’esecutivo… La principale difficoltà del secondo ruolo deriva dal fatto che i consiglieri agiscono a priori sul controllo di qualità di decreti che nessuno ha ancora attaccato e di leggi che i deputati non hanno ancora preso d’assalto. Lungi dal limitarsi al solo diritto amministrativo, devono conoscere tutte le branche del diritto -da qui la necessaria distinzione in differenti Sezioni ognuna delle quali è specializzata nella produzione giuridica di diversi Ministeri. Mentre i moyens impugnati dai ricorrenti orientano le riflessioni del Contenzioso (ed hanno persino il dovere di contenerla) le Sezioni amministrative devono praticare un esercizio di divinazione più rischioso per via della moltiplicazione delle esperienze di pensiero attraverso cui i loro membri sottopongono in anticipo il testo delle leggi a tutti gli ostacoli, gli inconvenienti, le seccature e le prove possibili. Il Consiglio lavora un po’ come un istituto di normalizzazione, il quale sottopone i prodotti destinati al grande pubblico ad ogni sorta di spaventose tribolazioni prima di dar loro il marchio di qualità che ne autorizza l’immissione sul mercato. Per dare alle povere parole la forza di resistere a tutti questi vincoli, bisogna dunque pensare a tutto in anticipo: al diritto certamente, ma anche alla lingua francese, alla fattibilità delle misure adottate, all’organizzazione del lavoro, all’opportunità politica di questo o di quel testo».

[iii] Recueil Lebon è una pubblicazione che, in Francia, riproduce le decisioni dei tribunali amministrativi (sommario), dei tribunali amministrativi di appello, del Consiglio di Stato e della Corte dei conflitti.

[iv] G. Paleologo, Modi di lavoro dei Consigli di Stato italiano e francese in sede giurisdizionale, in La Revue Administrative, vol. 52, no. 8, 1999, pp. 77–100.

[v] https://www.ena.fr/

[vi] https://insp.gouv.fr/

[vii]Non siamo mai stati moderni” è il titolo di una delle opere più famose di Latour.

[viii] Fatticcio è frutto dell’ibridazione delle parole “fatto” e “feticcio”. B. Latour, Petite réflexion sur le culte moderne des dieux faitiches, Parigi, Sinthelabo, 1996.

[ix] A pagina 302 Latour scrive: «Tutto il diritto può essere inteso come uno sforzo ossessivo per rendere l’enunciato imputabile».

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