Un ricordo del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel giorno dei suoi funerali (26 settembre 2023).
L’11 febbraio 2008 l’Università di Trento conferì al Presidente Giorgio Napolitano il titolo di Professore onorario (della Scuola di Studi internazionali).
Nella galleria fotografica (@UniTrento ph. Roberto Bernardinatti) alcuni momenti della cerimonia tenutasi al Teatro Sociale. In qualche foto, alle spalle del Presidente, compaio anch’io che all’epoca ero Pro-Rettore agli affari giuridici. Si noterà che Napolitano terminò la lectio seduto: il Presidente ebbe un leggero malore a causa della toga che gli fece sentire un caldo eccessivo.
Il “padrone di casa” fu il Rettore di allora, Prof. Davide Bassi.
LECTIO MAGISTRALIS
DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
GIORGIO NAPOLITANO
SU “IL FUTURO DELL’EUROPA”
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO – 11 FEBBRAIO 2008
L’Europa sta uscendo da un periodo di grave crisi, il cui epicentro sono state le istituzioni dell’Unione, il progetto volto a ridefinirle e riformarle, ma la cui sostanziale gravità è consistita nell’oscurarsi dell’idea stessa dell’integrazione e nell’incrinarsi della volontà politica e del consenso popolare che l’hanno per decenni sorretta. Oggi, a distanza di due mesi dal Trattato di Lisbona, credo sia giusto chiederci quale sia la strada da percorrere per superare pienamente la crisi degli anni recenti, quali le opportunità nuove che si presentano per un effettivo rilancio della costruzione europea, quali le scelte e le coerenze che a tal fine si impongono.
E di ciò parlerò dal punto di vista dell’impegno italiano, in nome di un comune sentire che si è via via radicato tra i cittadini e da oltre trent’anni risulta condiviso da un larghissimo arco di forze politiche.
Non è d’altronde eccessivo nutrire sentimenti di orgoglio per il ruolo che l’Italia ha saputo svolgere, fin dall’inizio, nella costruzione dell’Europa comunitaria, per le posizioni costruttive e unitarie che essa ha espresso in tutte le vicende e i passaggi cruciali del processo di integrazione e unificazione europea, dal lancio della Dichiarazione Schuman e dall’adozione del Trattato istitutivo della CECA fino alla svolta del Trattato di Maastricht, all’adozione dell’Euro e al grande allargamento dell’Unione.
Nonostante il difficile contesto iniziale, di aspre contrapposizioni ideologiche e politiche, in cui si collocarono la grande intuizione e la ferma determinazione di Alcide De Gasperi, la scelta europeistica dell’Italia si consolidò e affermò sempre di più, guidata da un nucleo di valori e di indirizzi ancora oggi essenziali e vitali.
Il richiamo – in questa Università, in questa città – al pensiero e all’opera di De Gasperi è non solo un omaggio dovuto e convinto ma il punto di riferimento migliore per alcune considerazioni preliminari. Quelle relative, innanzitutto, al senso della difficoltà e della durata dell’impresa, e quindi della carica di fiducia e di lungimiranza che ci deve ispirare e sostenere.
Impressiona sempre ripercorrere le tappe intensissime della battaglia di De Gasperi nella fase di avvio e gestazione del progetto comunitario, i suoi interventi, nel Parlamento italiano e in molteplici altre sedi, dal 1949 al 1954 : mai, in nessun altro periodo successivo, il tema europeo è stato così presente, così vigorosamente e riccamente sviluppato, in termini polemici e in termini propositivi, come parte integrante della visione e dell’impegno di un capo di governo italiano. E fortissima risulta negli interventi di De Gasperi la prospettiva federalista, specie in rapporto al progetto istituzionale che si legava al Trattato per la Comunità europea di difesa. Un progetto, anzi, “costituzionale” : essendo in esso compresa, e da De Gasperi collocata in primo piano, la preparazione di una “Costituzione federale”. Se si pensa al dispendio di passione e di energia che comportò il lavoro preparatorio, e con esso il confronto politico, sulla Comunità europea di difesa, e al naufragio, dopo due anni, di quel progetto, c’è da restare ammirati per il coraggio e la speranza con cui quell’obbiettivo era stato perseguito.
Non dimentichiamolo : il cammino dell’Europa unita è passato attraverso simili, amarissime prove, ed è stato necessario non minore coraggio anche per superare le sconfitte e le crisi. Sento come più che mai attuale questo insegnamento ; come più che mai attuali le parole di De Gasperi nel 1950, a sostegno della mozione federalista presentata in Senato :
“Non è detto che la realizzazione [di questo disegno] si accompagni alla nostra vita e alla nostra generazione, non è detto che noi avremo la gioia di assistere all’attuazione di quello che pensiamo o auspichiamo (…) Ma diciamo che quella è la strada giusta : su quei binari ci dobbiamo mettere con tutto il nostro sforzo e lavorare con tenacia”.
Il Trattato istitutivo della CED fu bocciato con il voto dell’Assemblea nazionale francese qualche settimana dopo la morte di Alcide De Gasperi. Alla sua vita, dunque, e alla sua generazione, “si accompagnò” solo la realizzazione dei primi traguardi del disegno dell’unità e dell’integrazione europea. Ma i semi che in quell’agosto 1954 erano sembrati dispersi, non risultarono poi piantati invano.
Con lo stesso spirito, possiamo e dovremmo guardare oggi all’impegno generosamente speso nella preparazione del Trattato costituzionale firmato a Roma nell’ottobre 2004 e poi abortito ; per continuare con la stessa tenacia dimostrata nel passato, a muoverci lungo i binari che sono attualmente percorribili.
Percorribili, voglio dire, grazie al compromesso raggiunto nel giugno dello scorso anno sotto presidenza tedesca e sottoscritto nel dicembre a Lisbona.
E la prima esigenza è quindi quella di portare avanti e concludere il processo di ratifica di questo nuovo Trattato.
Sono molti gli aspetti positivi ed i passi avanti che esso delinea per il futuro, e che qui posso solo accennare sommariamente. L’ulteriore rafforzamento del ruolo del Parlamento europeo (nei suoi poteri di codecisione, di elezione del Presidente della Commissione, di bilancio, di revisione dei Trattati) e anche le maggiori opportunità di scrutinio – ma non di interdizione – da parte dei Parlamenti nazionali nella fase di preparazione della legislazione comunitaria; una migliore definizione dei diritti dei cittadini ed ulteriori tutele a loro garanzia (con il riconoscimento del carattere vincolante della Carta dei Diritti fondamentali e l’adesione dell’Unione alla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo); procedure più efficienti all’interno del Consiglio (l’estensione delle decisioni a maggioranza qualificata, sulla base del principio della doppia maggioranza, della popolazione e degli Stati ; la figura più stabile del Presidente del Consiglio) ; la riorganizzazione della Commissione, e la collocazione al suo interno dell’Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune, a capo di un Servizio per l’Azione esterna composto da funzionari comunitari e nazionali ; l’estensione nei settori comunitari della giustizia e degli affari interni di procedure meno intergovernative e del controllo da parte delle autorità giudiziarie.
Il Trattato di Riforma non propone ai cittadini, come sarebbe stato auspicabile, un testo unico, più facilmente leggibile. Esso rinuncia anche ad esplicitare e sancire simboli, quali la moneta, la bandiera e l’inno europeo, che sono in realtà già acquisiti nella prassi della vita pubblica degli Stati Membri e che sarà bene continuare a valorizzare con il dovuto orgoglio della nostra identità europea, niente affatto contrapposta a quella nazionale bensì suo completamento naturale. E’ legittimamente criticabile il fatto che sia posposta l’entrata in vigore di semplificati meccanismi di decisione nel Consiglio, sebbene fossero lungamente attesi, così come è legittimamente criticabile il permanere di varie fattispecie di opt-out, che rischiano di frammentare il comune quadro istituzionale. Ma anche questi limiti e aspetti negativi possono non intaccare le potenzialità di un migliore assetto dell’Unione sulla base del Trattato “di Riforma” (come lo si è definito).
E’ significativo che sia stata l’Ungheria, uno dei paesi del “grande allargamento”, il primo paese dell’Unione ad aver ratificato a larghissima maggioranza il nuovo Trattato. Ed hanno subito dopo definito le rispettive ratifiche, per via parlamentare, la Slovenia, Malta, la Romania. Ciò conferma ulteriormente che i Paesi che, come l’Italia, non esitano sulla via dell’integrazione, non sono più esclusivamente Paesi fondatori o membri anziani dell’Unione. Molto importante è comunque la ratifica appena decisa in Francia – previa modifica della Costituzione : il colpo d’arresto al processo d’integrazione venuto nel 2005 – non per la prima volta – da quel grande paese, protagonista essenziale della costruzione europea, è stato così superato. I chiarimenti che sembrano intervenuti in Danimarca, in Gran Bretagna, nei Paesi Bassi nonché l’impegno del governo del Primo Ministro Verhofstadt in Belgio, seppure in una complicata situazione politica interna, di accelerare al massimo il complesso iter di ratifica (che in Belgio deve passare l’esame di ben sette assemblee elettive) possono indurre, in attesa del Referendum in Irlanda, ad un cauto ottimismo rispetto al mantenimento di un calendario che renda possibile l’entrata in vigore del Trattato l’anno prossimo. Certamente è indispensabile, in questo contesto, che nessuno Stato Membro si sottragga alle sue responsabilità e agli impegni ancora una volta assunti. Il tempo stringe, non possiamo più esitare. L’Italia deve fare la sua parte : innanzitutto ratificando il Trattato, anche in questa fase elettorale. E’ indispensabile che alle elezioni europee del prossimo anno si giunga potendo presentare ai cittadini il nuovo quadro di obbiettivi e di regole dell’Unione.
Secondo le valutazioni più obbiettive, il Trattato di Lisbona ha salvaguardato la gran parte delle innovazioni istituzionali previste dal Trattato di Roma del 2004. Non c’è dubbio che questo sia un risultato molto importante.
Non possiamo però nasconderci che l’abbandono del Trattato che istituiva una Costituzione per l’Europa resti una dolorosa rinuncia in primo luogo per quanti desiderino caratterizzare l’Unione Europea sempre più marcatamente come Unione politica. La costituzionalizzazione resta una prospettiva imprescindibile per l’Europa del futuro, se essa non vorrà venire meno alla sua vera vocazione come soggetto politico capace di rispondere alle trasformazioni del contesto mondiale e alle sfide del nostro tempo.
Non è inutile ricordare che a favore della Costituzione e del salto di qualità che essa implicava si erano espressi i due terzi degli Stati Membri (due dei quali, Spagna e Lussemburgo, tramite referendum) così come la grande maggioranza degli eletti al Parlamento Europeo. Ed è altresì evidente come anche larga parte dei cittadini che si sono nel 2005 espressi contro la Costituzione nei referendum in Francia ed in Olanda, siano stati condizionati da rappresentazioni mistificatorie del processo di integrazione e delle cause del loro disagio sociale.
Proprio il peso di questa sofferta vicenda ci spinge a riproporre analisi e convinzioni maturate fin dall’inizio degli anni 2000 e a guardare con piena consapevolezza critica agli ostacoli incontrati lungo il cammino.
La necessità di rispondere a interrogativi nuovi riformulando ambizioni e prospettive dell’Europa unita era a fondamento già di quella Dichiarazione di Laeken del Dicembre del 2001 che segnò una tappa importante nel percorso di rinnovamento dell’Unione e che può essere utile richiamare.
Con la Dichiarazione di Laeken infatti i Capi di Stato e di Governo dell’Unione riconobbero che i successi conseguiti dall’integrazione europea, quali il consolidamento del Mercato unico, l’Unione monetaria, l’unificazione con i paesi dell’Europa Centro Orientale, e le pressanti esigenze sollevate dal processo di mondializzazione dell’economia ponevano l’Unione Europea davanti ad un dilemma cruciale : “l’autentica mutazione” in atto richiedeva un nuovo approccio rispetto a quello seguito cinquanta anni fa dall’Europa dei Sei. L’allargamento fino a 27 Stati membri di una Unione dotatasi di una Moneta comune, divenuta prima potenza commerciale al mondo e primo donatore pubblico al mondo di aiuti allo sviluppo, si accompagnava infatti al persistere di istituzioni nate e sviluppatesi in un contesto storico-politico profondamente diverso. Istituzioni da riformare dunque, per dare alla politica europea strumenti ritenuti indispensabili in una nuova epoca, in un nuovo secolo.
La Dichiarazione di Laeken indicava quindi la necessità di approfondire e risolvere dei nodi certamente complicati ma solo in apparenza esclusivamente “tecnici” o “istituzionali” : come semplificare gli strumenti comunitari; come meglio ripartire e definire le competenze dell’Unione ; come rendere più democratiche, efficienti e trasparenti le Istituzioni dell’Unione e come rafforzarne legittimità, autorità ed efficacia ; quale rapporto stabilire con i Parlamenti nazionali ; come semplificare i Trattati esistenti; quale Status dare alla Carta dei Diritti fondamentali ; se adottare o no un testo propriamente costituzionale.
Questioni altamente politiche, essenziali per il futuro dell’Europa, a smentita di quel dualismo tra Europa delle istituzioni ed Europa delle politiche pretestuosamente sollevato da alcuni osservatori poco entusiasti di ogni rafforzamento dell’Unione come soggetto politico. Questioni che richiedevano scelte significative, poi effettivamente assunte, come ad esempio quella di rafforzare le prerogative del Parlamento Europeo e di estendere le procedure a maggioranza qualificata al Consiglio; come quella di semplificare radicalmente i Trattati esistenti, attraverso un Progetto di Costituzione, comprensivo della Carta dei Diritti e definito con un metodo innovativo rispetto alla storia dell’integrazione europea, dalla Convenzione.
Proprio su quest’ultimo punto non ci si è sufficientemente soffermati, anche e soprattutto da parte dei più critici censori del dibattito sulla Costituzione : sull’importanza, cioè, del metodo della Convenzione del 2002-2003 (la Seconda Convenzione, va detto, per distinguerla da quella che nel 1999-2000 elaborò la Carta dei Diritti fondamentali proclamata a Nizza nel dicembre del 2000). Un metodo che ha rappresentato un esperienza importante, sebbene sfortunata negli esiti successivi, di apertura del processo di revisione dei Trattati, nel senso di una maggiore trasparenza dei lavori, e di una concreta partecipazione da parte dei Parlamenti nazionali e della società civile.
I passi indietro che si sono registrati rispetto alle indicazioni di Laeken, alla valorizzazione del metodo nuovo della Convenzione, e al “salto di qualità” rappresentato dalla Costituzione, sono riconducibili al persistere di visioni contrapposte sul senso e sul futuro dell’integrazione europea. Si ha talvolta l’impressione che il carattere e il valore della nostra impresa siano compresi meglio fuori dell’Europa. E certamente, non può non suscitare interesse e indurci a riflettere il fatto che la funzione dell’Europa sulla scena globale, di una Europa aperta al mondo e non chiusa da tentazioni di protezionismo economico ed isolazionismo politico, sia riconosciuta sempre più da chi in altri continenti tende a perseguire la scelta dell’integrazione regionale.
In realtà, è venuto il momento di liberare il dibattito in Europa e sull’Europa da quelli che il Ministro degli Esteri britannico Miliband in un suo significativo recente discorso al Collège d’Europe a Bruges – riprendendo polemicamente un discorso del Primo Ministro Thatcher tenuto nella stessa sede venti anni fa – ha definito letteralmente dei “demoni”. “Demoni” da scacciare finalmente dall’immaginario delle opinioni pubbliche più influenzabili (a cominciare da quella della stessa Gran Bretagna) – e così riassumibili : “Un Super Stato europeo che priva le singole Nazioni della loro identità ; un ideale e un linguaggio utopistici che bloccano ogni concreto progresso”.
No, l’Europa unita non è nulla di tutto questo. Essa può piuttosto rappresentare – come lo stesso Miliband ha sostenuto – un “modello” di “cooperazione su scala regionale tra paesi di media e piccola dimensione, di azione comune in termini di valore aggiunto rispetto agli sforzi nazionali, di sviluppo di valori condivisi oltre le diversità nazionali e di credo religioso”. Un modello di potere esercitato persuadendo i paesi che vi si vogliano associare “a rispettare regole comuni e a fissare degli standard globali”.
Tale definizione può naturalmente essere ben integrata e arricchita. L’Europa unita offre un modello di libertà economica e di responsabilità sociale, riassumibile nell’espressione “economia sociale di mercato” ; essa offre il più avanzato modello di diritti civili e sociali e, nello stesso tempo, di doveri di solidarietà ; essa esprime, infine, rispetto ai più critici problemi della comunità internazionale un approccio che si caratterizza per una paziente ricerca di soluzioni politiche, ispirata a principi di pace e di giustizia, a obbiettivi di progresso economico e sociale, di costruzione e consolidamento, nelle diverse condizioni, dello Stato di diritto.
Si può, da quest’ultimo punto di vista, definire il ruolo dell’Europa come proprio di un “soft power” : purché non si alimenti con ciò l’equivoco di un sottrarsi dell’Europa alla sua responsabilità di contribuire anche con l’impiego di mezzi militari alla salvaguardia della pace e della sicurezza internazionale. Di fatto, d’altronde, l’Europa e la stessa Italia non vi si sono sottratte, come dimostra la loro partecipazione in tempi recenti a impegnative e rischiose missioni in aree di crisi.
Il ruolo che l’Europa è chiamata ad assolvere e che parlando con una sola voce, decidendo e agendo unita è in grado di assolvere nel nuovo contesto mondiale, costituisce il tema principale dell’evoluzione e del rilancio del processo d’integrazione. Al centro delle preoccupazioni anche di noi europei devono esservi le tensioni e le incognite, insieme con le opportunità, di un mondo in cui sono emerse e crescono nuove grandi realtà e che appare ancora lontano da giungere a nuovi equilibri, accettabili e stabili. La priorità degli sforzi per la definizione e lo svolgimento di una politica estera e di difesa comune europea deve perciò essere concretamente riconosciuta, tradotta in scelte coerenti, nella fase che si è aperta con la firma del Trattato di Lisbona.
Si pensi all’importanza, in questo momento, di una posizione comune europea sull’indipendenza del Kossovo e per la ricerca di un’intesa con la Serbia nel quadro di una prospettiva comune di integrazione della regione balcanica nel processo di allargamento dell’Unione. Tale processo si rivolge in primo luogo ai tre paesi attualmente candidati, Croazia, Macedonia e Turchia, ma deve aprirsi in tempi brevi alla Serbia. L’Unione Europea è chiamata nel prossimo futuro a non semplici, diverse prove di coerenza, sviluppando salde posizioni unitarie tra i suoi Stati Membri, favorendo costantemente prospettive di piena democratizzazione e sviluppo per paesi che all’Europa guardano con sentimenti profondi di amicizia. Sentimenti che l’Europa aspira a condividere con il suo più grande vicino, la Russia, con la quale l’Unione Europea intende rafforzare i principi e gli obiettivi posti alla base dell’Accordo di partenariato e cooperazione.
La Politica europea di vicinato, che l’Unione ha lanciato nel 2004, offre uno strumento importante di relazioni economiche e commerciali, politiche e di sicurezza, culturali e scientifiche con numerosi paesi del Mediterraneo, del Medio Oriente, del Caucaso e dell’Europa Orientale. La presenza e l’azione costante dell’Unione in queste aree non è solo segno di valide relazioni bilaterali con paesi strategicamente importanti. La Politica di vicinato implica una visione complessiva qualitativamente più avanzata, fondata sul legame tra la stabilità e la crescita dell’Unione, e lo sviluppo complessivo di vaste sfere geopolitiche a noi vicine. Basti guardare al Mediterraneo, cui oggi si rivolge il particolare forte impegno – ed è un fatto nuovo – del Presidente francese Sarkozy.
Più in generale, molto ci si attende dalla capacità di proposta e di azione dell’Unione Europea in una epoca di accelerati mutamenti globali. La decisa azione del Cancelliere Merkel e l’iniziativa della Commissione Europea sono state decisive nell’offrire, con l’avvio di una politica comune per l’energia, il primo rilevante segno di una nuova consapevolezza europea. La politica per l’energia si integra con quella per l’ambiente, che implica un forte impegno nel definire standard legislativi interni, nell’intervenire in complessi contesti multilaterali (come recentemente attestato dall’azione europea nell’ambito del negoziato internazionale sul cambiamento climatico nella Conferenza di Bali), ed egualmente nella definizione di politiche attive come il Sesto Programma Quadro per l’ambiente nel quadro della Strategia per lo sviluppo sostenibile approvata dal Consiglio Europeo del Giugno del 2006. Si delinea così una nuova frontiera, un altro importante fattore di caratterizzazione del modello europeo : purché si proceda coerentemente sul terreno della trasformazione della industria europea e del nostro quadro di comportamenti e di consumi in senso ecologicamente compatibile, avendo di vista esigenze di nuova competitività dell’economia europea e di elevamento della qualità della vita.
Lo sviluppo impetuoso di Cina ed India (così come di altri paesi e altri continenti : si guardi ad esempio alle trasformazioni in corso in America Latina) ed il loro ritornare ad avere dopo alcuni secoli, una parte rilevante nella produzione e nel commercio internazionale, danno il senso di una realtà mondiale radicalmente mutata in cui l’Europa unita può collocarsi senza scivolarne ai margini. Il sempre più fitto intreccio di legami economici e finanziari al livello mondiale induce infatti a guardare all’Unione Europea come fulcro e stimolo decisivo per porre al centro della mondializzazione le questioni di uno sviluppo più equilibrato, socialmente, politicamente ed ecologicamente, e dell’indispensabile affermazione di un clima nuovo nelle relazioni internazionali, fondato sulla inclusione, l’aggregazione regionale, il multipolarismo e impegnato per la causa dei diritti umani e della crescita democratica.
Intendo sottolineare in particolare il tema dell’inclusione, e pensando ad alcune incoraggianti recenti tendenze di crescita economica all’interno del Continente africano, accompagnate purtroppo dal persistere e dal riaccendersi di conflitti e inaccettabili tragedie, vorrei ricordare come già la Dichiarazione Schuman nel 1950 richiamasse le responsabilità e la missione dell’Europa – che partiva allora dalla messa in comune della produzione del carbone e dell’acciaio – ben oltre i suoi confini e guardasse in primo luogo ai problemi dell’Africa, a noi così vicina e verso la quale dovevamo sentire non cancellabili doveri : “l’Europa potrà, con mezzi accresciuti, proseguire nella attuazione di uno dei suoi compiti fondamentali – lo sviluppo del Continente africano”.
Questo complesso di impegni e di responsabilità dell’Europa nella più vasta area delle relazioni politiche, economico-commerciali e tecnico-scientifiche internazionali, richiede la più conseguente applicazione e la massima valorizzazione delle novità offerte dal Trattato costituzionale e ora, sia pure in forme più attenuate, dal “Trattato di riforma” sottoscritto a Lisbona e sottoposto al processo di ratifica. Mi riferisco naturalmente alla nuova figura dell’ “Alto rappresentante” – che avremmo voluto chiamare “ministro degli esteri europeo” – e nello stesso tempo al “Servizio europeo per l’azione esterna” cui si è deciso di dar vita.
Sarà decisivo che questo servizio possa sviluppare un rapporto fecondo tra le competenze nazionali ed il quadro comunitario, contribuendo così ad una sintesi effettiva degli interessi dei diversi Stati Membri sulla scena internazionale. Da questo punto di vista, deve essere trovato un equilibrio efficace tra l’assetto prevalentemente intergovernativo del settore della Politica Estera e di Sicurezza Comune (dove restano limitate le prerogative del Parlamento Europeo) e la necessità, in prospettiva, di avanzare nel senso dell’integrazione sovranazionale.
Si tratta di mettere in grado l’Europa di affermarsi come attore globale sulla nuova scena mondiale : rafforzando il suo profilo e la sua capacità di contributo originale innanzitutto nell’ambito delle relazioni transatlantiche, che restano il campo privilegiato della collocazione internazionale dell’Europa unita.
La priorità da assegnare agli sforzi per dare consistenza e credibilità alla funzione e azione internazionale dell’Unione europea, non può essere separata da altri fondamentali impegni da perseguire. Non posso ora passarli tutti in rassegna. Mi limiterò a sottolineare l’impegno, cui l’Europa non può sfuggire, a salvaguardare la propria coesione economica, sociale e territoriale. E’ indispensabile non rinunciare alla Strategia fissata a Lisbona nel 2000, centrata sull’innovazione e su obiettivi ambiziosi di riforma per l’economia e la società europea. Obiettivi di straordinario rilievo che, purtroppo, non sono stati perseguiti negli anni scorsi con l’indispensabile rigore, restando affidati a troppo deboli vincoli di coordinamento delle politiche nazionali. Eppure urgono ovunque delle risposte credibili al diffuso disagio derivante da forme di grave precarietà, da un’incertezza di prospettive per i giovani, da persistenti difficoltà per le imprese. Sarebbe esiziale lasciar diffondere nell’Unione Europea sentimenti di pessimismo e fenomeni di lacerazione sociale, invece che di fiducia, solidarietà ed unità.
Sono ormai trascorsi quasi otto anni da quando a Lisbona i capi di Stato e di governo dell’Unione fissarono l’obiettivo della costruzione dell’economia più dinamica e più competitiva al mondo. Va ancor oggi ribadita la valenza strategica di quella scelta ; e vanno messe in campo tutte le energie e le risorse necessarie per riuscire in quella impresa, favorendo in primo luogo la formazione lungo l’arco della vita e l’innovazione tecnologica, investendo nel capitale umano, nella ricerca e nelle imprese che più li valorizzano.
L’Europa ha nel sapere, nella ricerca e nella cultura, nelle università e nelle industrie della creatività, un potenziale decisivo per affrontare il futuro. Il programma quadro per la ricerca, i vari programmi in ambito culturale e dell’istruzione, la creazione dell’Istituto europeo di Tecnologia, il progetto Galileo ed il progetto della biblioteca digitale europea sono iniziative e realtà importanti, sebbene in vari casi ancora poco conosciute e non sufficientemente valorizzate. Solo investendo nella ricerca e nella cultura, sviluppando sinergie tra i sistemi formativi e la società nel suo complesso, l’Europa potrà davvero rafforzare il proprio modello sociale, e tener vivo il proprio patrimonio di civiltà.
E qui vorrei concludere. Aggiungendo che al mondo della scuola, della cultura, dell’informazione va richiesto – ne sono convinto – un impegno decisamente più forte, continuativo e conseguente, per suscitare un moto di riflessione e partecipazione diffusa attorno alle prospettive dell’integrazione e unificazione europea, partendo dalle grandi motivazioni ideali del processo che venne avviato ormai quasi sessant’anni orsono. Punti di riferimento, e occasioni attuali, dell’impegno che sollecito sono il messaggio contenuto nel nuovo Trattato da ratificare in Italia e in tutti gli Stati membri dell’Unione, e poi, via via, l’elaborazione che scaturirà dal gruppo di riflessione che il Consiglio europeo dello scorso dicembre ha deciso di costituire, con il compito di identificare le questioni cruciali e gli sviluppi cui l’Unione dovrà far fronte nel più lungo periodo, cioè nell’orizzonte 2020-2030.
Ma vorrei sottolineare che un’occasione non meno importante può essere offerta dalle celebrazioni del 60° anniversario della Costituzione italiana. Perché negli ultimi decenni si è venuta realizzando – come ho avuto modo di rilevare nel mio recente discorso in Parlamento dedicato a quella ricorrenza – una “vera e propria integrazione tra gli indirizzi della nostra Costituzione repubblicana e quelli dei Trattati europei”, delle Carte dei principi, dei valori, dei diritti dell’Unione europea. L’ “autentico, profondo, operante patriottismo costituzionale” cui ho fatto appello in Parlamento non può essere disgiunto da un rinnovato patriottismo europeo.