Sul piano etimologico, nel termine “patriarcato” non c’è solo il riferimento al genere (maschile): c’è anche il riferimento al potere, a chi decide e sceglie. Il patriarcato, infatti, è un modello che attribuisce all’uomo/padre l’autorità tanto nell’organizzazione sociale quanto nella famiglia.
A me piacerebbe vivere in un mondo in cui le relazioni affettive non abbiano niente a che fare con il potere e con il desiderio di far prevalere la propria volontà a prescindere. La legittima aspirazione da parte di molti a superare la cultura patriarcale (perché di cultura si tratta) non deve significare sostituire il patriarcato con il matriarcato o con il “suocerato” o con qualsivoglia situazione che vede una persona che comanda. Il tema è quello di uscire, nei rapporti affettivi, dalle logiche del comando.
Qualcuno dirà che sono un sognatore. A ben vedere, però, già esistono delle situazioni nelle quali al paradigma del potere è stato sostituito qualcos’altro. Nella versione originaria (1942), l’articolo 316 del codice civile intitolato «Esercizio della patria potestà» prevedeva che la potestà sui figli fosse esercitata dal padre. Era una norma espressione del patriarcato. Si individuava un genere (l’uomo) e si determinava una modalità che faceva diretto riferimento all’esercizio del potere (la potestà, appunto). L’articolo 316 venne modificato, nel 1975, in occasione della riforma del diritto di famiglia. La nuova formulazione era: «Il figlio è soggetto alla potestà dei genitori sino all’età maggiore». Cambiava il soggetto (non solo il padre ma entrambi i genitori di comune accordo) ma rimaneva il riferimento alla potestà. Nel 2013 la norma in questione è stata nuovamente modificata e adesso recita: «Entrambi i genitori hanno la responsabilità genitoriale che è esercitata di comune accordo tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni del figlio». Non si fa più riferimento alla categoria del potere (potestà) che impone qualcosa ma a quella della responsabilità che deve tener conto delle caratteristiche del soggetto rispetto al quale si esercita. Si tratta di una vera e propria rivoluzione copernicana nell’ambito dei rapporti affettivi. Il segno che è possibile superare logiche vecchie e poco appaganti.
Possiamo chiamare amore un rapporto dove qualcuno comanda su qualcun altro? O ci si ama perché si desidera regolare reciprocamente il proprio passo in modo da camminare nella stessa direzione decidendo insieme quale debba essere?
Le cronache, purtroppo, ogni giorno ci restituiscono esempi di coppie dove regna la sopraffazione, sopraffazione che può essere di tanti tipi e può manifestarsi in tanti modi (molto spesso subdoli). Inutile dire che sono proprio le donne le vittime più ricorrenti della sopraffazione. A volte la sopraffazione giunge alla sua forma più estrema: togliere la vita. Una sete di comando e di autoaffermazione che oltrepassa ogni limite compreso il comandamento più sacro: non uccidere.
La dolorosissima vicenda che in questi giorni ha scosso tutti mi ha fatto tornare in mente una ragazza che conobbi e frequentai per un periodo molti decenni fa, quando ero poco più che adolescente.
Un pomeriggio, mentre si parlava delle proprie aspirazioni, mi disse: «Sai, ho paura a guardarmi dentro perché ho orrore di ciò che potrei vedere».
Non so perché fosse così severa con se stessa: quella frase (che lasciava trasparire sofferenza) mi aveva spaventato e non indagai né quel pomeriggio né successivamente.
Ma a quella frase ho ripensato spesso perché mi aveva fatto capire che nelle relazioni (oggi sento parlare di «educazione alle relazioni») la cosa più importante è la relazione con se stessi. E non solo perché per stare bene con gli altri occorre innanzitutto stare bene da soli. Ma perché occorre imparare (e, quindi, qualcuno lo deve insegnare: una delle responsabilità dei genitori) a guardarsi dentro. E imparare che se dentro di sé si vedono o si ha paura di vedere abissi spaventosi (di quelli che possono condurre ad uccidere, per esempio, perché non si è in grado di controllare la propria aggressività) è bene non far finta di nulla e correre ai ripari. Imparando a chiedere aiuto. Imparando ad aiutare se stessi prima di precipitare davvero nell’abisso coinvolgendo altre persone che hanno tutto il diritto di vivere la propria vita.
Detto in altre parole: possiamo imparare a capire chi siamo per trovare il modo di dare un contenuto pieno e appagante ai rapporti affettivi. Con questa prospettiva il potere non c’entra nulla.