Nei giorni scorsi è stata pubblicata la classifica «QS World University 2025»  (pdf) delle migliori università globali (redatta da una società di consulenza denominata Quacquarelli Symonds). Si tratta di una delle tante graduatorie (nazionali o internazionali) che ogni anno mettono in fila gli Atenei sulla base di parametri di volta in volta diversi. La prima Università italiana è il Politecnico di Milano (111esimo posto) seguito dalla Sapienza di Roma e dall’Alma Mater di Bologna.

Il Financial Times (FT), in un editoriale (pdf) apparso il 9 giugno, ha fatto notare che in quella classifica stanno conquistando posizioni sempre migliori le Università scientifico/tecnologiche. Il MIT (Massachusetts Institute of Technology) è primo da più di 10 anni. Quest’anno è giunto secondo l’Imperial College di Londra, superando Oxford, Cambridge e Harvard. Il FT sottolinea che l’Imperial College ha prosperato da quando si è staccato dall’Università di Londra quasi vent’anni fa. Ha 23.000 studenti, quasi la metà provenienti dall’estero, nonostante la retta sia compresa tra le 38.000 e le 54.000 sterline all’anno. La loro attenzione alle materie fondamentali in scienza, tecnologia, ingegneria, medicina ed economia li rende laureati molto ricercati. Il FT prosegue affermando: «Dietro tutto ciò si nasconde una storia più ampia riguardante la crescita globale delle università scientifiche e tecnologiche, molte delle quali create come istituti professionali di secondo livello secoli dopo i college di arti liberali e umanistiche che sono spesso identificati con la parola “università”».

Le classifiche vanno prese con le pinze (personalmente non mi appassionano). Però le considerazioni svolte dal Financial Times meritano di essere approfondite.

A) Il FT ricorda che l’Imperial College ha attirato un gruppo di start-up nel campo della biotecnologia insieme alla sede centrale britannica di Novartis in un ex sito della BBC: tutto ciò è stato molto utile per l’intera economia del Regno Unito in quello che è stato un periodo difficile. In altre parole, le facoltà tecnologiche hanno un sistema di finanziamento (startup e contributi industriali) sideralmente differente da quello proprio delle Università tradizionali (finanziamento statale). La classifica QS contempla 90 università britanniche, di cui tre tra le prime cinque, ma le istituzioni di livello inferiore sono gradualmente scese nella lista di fronte all’incombente crisi dei finanziamenti e alla crescente concorrenza da parte dell’Asia. Sorge allora una domanda: possono ancora stare insieme, in una stessa istituzione universitaria, dipartimenti umanistici e dipartimenti scientifico-tecnologici visto che sono molto diversi i campi di indagine, le modalità di accesso ai finanziamenti e i criteri di valutazione nelle diverse discipline? C’è da chiedersi se non sia più utile perseguire una distinzione tra università e politecnici.

B) Fino a che punto professori che studiano problemi classici della logica matematica oppure l’eredità culturale di Shakespeare e dell’Alighieri possono essere assimilati a professori che si propongono di trovare i necessari cospicui finanziamenti per poter brevettare, a seconda dei casi, veicoli a guida autonoma o nuovi vaccini così da partecipare a startup create ad hoc per il loro sfruttamento commerciale? Molto diversi appaiono: gli abiti mentali, i metodi di ricerca, le responsabilità etico/sociali.

C) Certo, tenere insieme questi due mondi può rappresentare una sfida da raccogliere. Quello che sta accadendo è che le facoltà tecnologiche scalano le classifiche e le università “generaliste” vecchio stampo arretrano (anche a causa dei minori finanziamenti). Forse a mostrare la corda è anche la scelta, fatta in Italia con la riforma Gelmini, di avere una organizzazione dipartimentale basata su una rigida divisione per discipline. Occorre uno sforzo di fantasia per superare gli steccati che, per molti versi, sono la negazione della conoscenza.

D) Infine, la domanda più insidiosa di tutte. Se le Università scientifico/tecnologiche acquistano sempre più prestigio e potere, che fine farà il sapere umanistico nella formazione delle nuove generazioni e, in particolare, dei tecnici di domani? Il problema non si risolve insegnando qualche ora di filosofia nei corsi di ingegneria o di biologia. Sapere scientifico/tecnologico e sapere umanistico devono progredire insieme per affrontare in maniera appagante i problemi etico/morali/giuridici che il progresso sta generando. Siamo ancora in grado di immaginare istituzioni universitarie che sappiano favorire una crescita comune di saperi ormai così diversi?

 

l’Adige, 14 giugno 2024

Alto Adige, 15 giugno 2024

 

 

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